Mio padre porta il nome di un fratello maggiore morto negli anni ’40 di appendicite: essendo il penultimo di undici figli le probabilità che questa sorte toccasse a lui erano altissime. E lo stesso destino è stato riservato anche a mio zio, a riprova del fatto che morire da bambini fosse prassi consolidata all’epoca – altro che Blue Whale e cyberbullismo. Ma un nome può, da solo, generare trauma? È la domanda da cui partire per addentrarsi nella vorticosa genealogia famigliare dell’ultimo romanzo di Mario Desiati Malbianco (Einaudi, 2025): Marco, il protagonista, flâneur berlinese appassionato di cristalloterapia che soffre di svenimenti irruenti, porta il nome dello uno zio deceduto, fratello del padre, che a sua volta è il nome di un oscuro antenato morto bambino, figlio della bisnonna Addolorata. A complicare la vicenda un prozio violinista disertore affetto da mutismo postraumatico, Vladimiro; l’incantevole zia Ada, che inforca fucili alla Tarantino, e un nonno sopravvissuto ai campi di prigionia tedeschi, Demetrio. Se il genogramma famigliare vi sta già facendo scoppiare la testa, la trama del romanzo si inerpica su un sentiero altrettanto impervio, mescolando stirpe e vergogna, ninne nanne yiddish, omissioni e miti famigliari dei Petrovici, che da Taranto si spingono fino all’est Europa e alla Grande Russia. La fatidica scoperta sul lettino del suo analista appare lo spunto di partenza per Desiati: i segreti come serpi inafferrabili nel microcosmo natale, i ‘nomi che fanno trauma’, le flashbulb memories – come l’unica volta che zio Vladimiro, il muto, aveva cantato sotto la neve – sono tutti ingredienti prudentemente accostati nel romanzo. A ciò vanno aggiunte le altre due salse immancabili della narrativa mainstream contemporanea: la saga famigliare e il racconto storico, meglio se di memorialistica e ripiegato sulla Seconda Guerra Mondiale o sul ventennio fascista. Per intenderci: siamo dalle parti di Stirpe e Vergogna di Michela Marzano, anche se – va detto - in modo molto meno raffazzonato (Desiati resta uno scrittore vero, non un’influencer per culturoni).
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Tuttavia, senza scomodare Baudrillard, occorre chiedersi se questa febbre irrefrenabile di scavare nella Storia e nel ‘trauma’ che essa nasconde, che sia privato o istituzionale, basti per costruire un romanzo e non un suo simulacro. Perché uno scrittore come Desiati, che meglio di altri ha costruito ritratti forti e fluidi di una generazione, la sua, quelli nati fra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, con Spatriati e con Vita precaria e amore eterno, ha avvertito oggi la necessità di ripiegarsi sul passato e ricordare, anziché immaginare? Più in generale: se gli scrittori italiani (sia veri che supposti italiani) sanno ormai solo ricordare, perché scegliere loro e non un Ginsborg, per non dire un De Felice? In uno dei suoi primi romanzi, Il Paese delle Spose Infelici, la documentazione sul passato – la leggenda del palazzo di Martina Franca da cui si lanciavano le spose ‘destinate’ – forniva lo spunto per un potente racconto di formazione nel presente, sulla fame di vita e sulla fatica di futuro di tre adolescenti. In Malbianco il passato resta passato, facendo capolino nel presente solo per emettere soporiferi vagiti post-traumatici, come i capogiri di cui soffre il protagonista o i treni Taranto-Roma per far visita al suo analista, che diventano spazio di un non movimento interiore di fissazioni e ruminazioni su zii e antenati defunti. Si, va bene, l’importanza della memoria, le radici, quelle robe li da cartella stampa: ma se il passato non viene messo in condizione di dialogare con il presente, il libro perde mordente, e finisce per diventare un soprammobile, da mettere in bella mostra in una diretta Tik Tok per far bella figura. E questo, considerato lo scrittore, è un peccato.
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