Fino al 1977, anno della sua scomparsa, su Maria Callas si è scritto e detto di tutto: chi la vedeva fragile, chi era ossessionato dal suo peso, chi la associava solo a Onassis e chi cercava qualcosa di più, dietro la sua voce. La sua immensa, straordinaria, grandiosa voce. Grandiosa come il film di Pablo Larraín, ingiustamente criticato e bollato come sfarzoso e vacuo. Il biopic non biopic è vuoto sì ma di noiose storie del passato, liberato da inutili nozioni e riempito con significati profondi e intangibili. Scena dopo scena, il miracolo del cinema di Larraín si compie nell'atmosfera. Sul grande schermo, il suo cinema si fa conoscere a chi non l'aveva mai visto, si fa amare (di nuovo) da chi lo aveva già incontrato. Dopo Spencer (su Lady Diana) e Jackie (su Jackie Kennedy), il regista cileno fa un film sulla Callas, ma come negli altri due, decide di soffermarsi soltanto su un momento preciso della vita della protagonista. E da qui aprire le finestre a più momenti del suo passato. Nel caso del soprano, ai suoi ultimi giorni. Un film, quello di Larraín che è molto più di un semplice omaggio, piuttosto un incredibile ricordo di quello che è stata, secondo gli altri, ma anche secondo se stessa. Una donna, Maria, che si è presa delle libertà dopo che il mondo, per molto tempo, se l’era prese con lei.
Maria è grandioso. Ancora. Maestoso e imponente come Callas, intimo e bisognoso d'affetto come forse lo era davvero Maria. Della donna che era divenuta, col tempo, leggera come le sue stesse arie, alla fine della proiezione, immersi nell'oscurità dei titoli di coda, ci rendiamo conto di non aver scoperto molto di più rispetto a quello che già sapevamo prima di entrare in sala. Eppure, il bello è proprio questo. A chi basta essere travolto dall’atmosfera eterea, distante e trasognata e non vuole, al cinema, essere per forza addottrinato. A chi non cerca le date, non ha bisogno dei personaggi uguali e identici agli originali ma preferisce lasciarsi trasportare dalle voci, i suoni, i silenzi dei protagonisti in un docufilm, Maria di Larraín piacerà da impazzire. “Credevo che il palco prendesse fuoco”, dice la cantante in una sequenza del film ripensando a una sua performance. E mentre le escono queste parole dalla bocca noi lo vediamo farsi spazio attorno a lei, resistere sotto la pioggia, esistere nei concerti immaginati per le strade di Parigi, nel salone grande di casa sua dove Ferruccio (Pierfrancesco Favino) sposta di continuo il pianoforte e in cucina mentre Bruna (Alba Rohrwacher) cucina le sue omelette (la prima scena in cui la governante cucina e la Callas si esibisce è da Oscar), questo inferno. Lo sentiamo tra le fiamme che non esistono e i suoi costumi di scena, nel teatro allucinogeno che aveva nella testa, tra i busti greci ammassati di Onassis e quei silenzi assordanti che si ripetono nel film e i dischi, i suoi, che odiava ascoltare per paura di risentirsi così dannatamente perfetta, qui cerchiamo Maria Callas e in Larraìn d’un tratto troviamo la sua anima. É davanti a noi.