Non è profondo come Il gigante di ferro né serioso come The Creator, ma questi paragoni sono poco più che un’associazione di idee. The Electric State è un film sfacciatamente godibile, tenero e comico, tipicamente allegorico (come tutti i film di fantascienza; è questo che li rende tutti un po’ banali), ma resta soprattutto un film da bollino verde, una versione multimilionaria e sviluppatissima de Le avventure di Sharkboy e Lavagirl (anche quello pessimamente recensito), nello stesso campo da gioco di Jumangji (il remake). Ecco un po’ delle critiche: “L’ultimo, The Electric State su Netflix, è costato la sbalorditiva cifra di 320 milioni di dollari. Ciò significa che è il 13° film più costoso mai realizzato. Un’impresa notevole, considerando che l’avventura fantascientifica è una faticaccia orribile e derivativa e l’ultimo lungometraggio imbarazzante dello streamer” (New York Post); “la saga sui robot dei fratelli Russo è un fiasco incredibilmente costoso” (The Guardian); “il film è ovvio, pacchiano e semplicemente stupido” (New York Times).

L’errore è immaginare questo film in sé e non, come si dovrebbe, come un’altra tappa del sodalizio tra Milly Bobby Brown e Netflix. Il resto, persino Chris Pratt, persino i monumentali Stanley Tucci e Giancarlo Esposito, sono comparse. E non perché Milly Bobby Brown sia la protagonista assoluta di un film relativamente troppo lungo, bensì perché un film del genere, che basta dichiarare per ragazzi per evitare che i critici boomer si divertano a sparare sulla Croce Rossa (in fondo è pur sempre una produzione supermilionaria con un’attrice super-pop, una colonna sonora senza genio e una trama poco originale), è un esempio di come un’industria possa affidarsi agli umani.

Milly Bobby Brown è l’essere vivente più simile a una dimostrazione nella vita reale della morale del film: qualche umano, in mezzo alle macchine, può funzionare. Mentre il mondo del “lifestyle” racconta di un’attrice eccessivamente incensata, cresciuta prima del tempo, con un fisico da quarantenne (è stata questa una delle ultime polemiche di inizio marzo), già sposata, già con una linea di cosmetici eccetera, risucchiata dallo star system e probabilmente a un passo dal bruciarsi, Milly Bobby Brown riesce a gestire con buona competenza attoriale (attenzione: buona, non eccezionale; almeno per ora), sia dei bei lavori che delle grandi produzioni: Stranger things fa parte del primo gruppo, The Electric State probabilmente più del secondo. Ma che importa? Sono film che ci permettono di mantenere alto il livello di attenzione su un’attrice che può, due o tre volte all’anno, fornirci qualcosa di piacevole: Enola Holmes per esempio. E se “piacevole” o “abbastanza buono” non vi sembra abbastanza (è la tesi del The Spectator), riflettete su questo: i film eccezionali sono un’anomalia statistica, le serate libere davanti alla tv no e vanno pur sempre riempite.

The Electric State non sarà il film peggiore che vedrete quest’anno né il migliore; l’aggressività con cui ci si è scagliati contro questo prodotto perché considerato troppo costoso rispetto al risultato non tiene conto di vari aspetti, tra cui il fatto che chi, come i fratelli Russo, ci ha regalato Avengers: Infinity War e Endgame può anche permettersi di non fare film eccezionali (e non è la prima volta che accade; vede alla voce Citadel). Ma il più importante, come detto, è che film del genere possono essere presi per quello che sono, la vostra dose quotidiana di normalità cinematografica, cioè quel che ci si aspetta quando si sveglie come passare due ore libere, senza sperare di trovare la verità ultima in uno schermo.
