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Al Concertone del primo maggio preferisco il silenzio e leggere Peter Handke

  • di Leonardo Masi Leonardo Masi

1 maggio 2022

Al Concertone del primo maggio preferisco il silenzio e leggere Peter Handke
Il Concertone di Roma è ormai diventato luogo di esibizione e l’esercito di figurine che solcano il palco è una pletora di insipidi che poco hanno che fare con l’arte e con la musica, che cianciano e fanno propaganda politica invece di parlarci di politica, di scavare i problemi reali del Paese, di costruire un discorso argomentato che non sia retorico. Una schiera di tipi che si danno arie con vestiti brutti, tatuati sulla fronte, che non azzeccano una nota nemmeno con l’autotune, che parlano come mangiano, e cioè male. E così oggi mi ritiro, mi “disinformo”, esco dalla massa formata da un contenuto mediocre e mi leggo “Canto alla durata” di Peter Handke, appena preso in prestito dalla biblioteca

di Leonardo Masi Leonardo Masi

Il primo maggio quest'anno cade di domenica. Sarebbe stato bollino rosso comunque. E c'è da chiedersi se c'è qualcosa da festeggiare il primo maggio, o piuttosto da rivendicare, perché fra una festa e una protesta ci passa un mondo. Se sviare letteralmente dai problemi che percuotono il lavoro con un sacro divertimento, che etimologicamente significa"divergere", "deviare", o porsi in un sano silenzio riflessivo. Se è il giusto pretesto per una vacanza o un momento di rinuncia. Una cosa però è certa, non mi guarderò il Concertone del Primo Maggio. Ma non per la mia naturale predisposizione a “bastian contrario”, non certo per contrarietà politica, e non per i classici sproloqui “i diritti dei lavoratori devono essere difesi tutto l’anno, e non solo il Primo maggio”. Non sono certo contrario alle festività, che in quanto tali sono un simbolo, che rimanda ad altro, ad una storia, e solo a questa bisogna badare e misurarne il valore.

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“Canto alla durata” di Peter Handke

Quello che sto questionando è il Concertone del Primo maggio, che negli ultimi anni da luogo di riflessione (mediato dall’esperienza musicale) è diventato luogo di esibizione. E questo perché l’esercito di figurine che solcano il palco romano è una pletora di insipidi che poco hanno che fare con l’arte e con la musica (salvo qualche rara e significativa eccezione, parafrasando Pierpaolo Capovilla); e che cianciano e fanno propaganda politica invece di parlarci di politica, di scavare i problemi reali del Paese, di costruire un discorso argomentato che non sia retorico e sofistico; è molto più facile sbandierare piuttosto che farsi ascoltare, perché l’ascolto implica tempo, e il tempo va conquistato con la Ragione. Io di quei nomi ne conosco pochi, e non mi viene neanche voglia da ascoltarli questi tipi che si danno arie con vestiti strani, cangianti, brutti, tatuati sulla fronte, che non azzeccano una nota nemmeno con l’autotune, che parlano come mangiano, e cioè male. Ora va di moda chiamare i titoli degli album assemblando nomi fra loro, così che il ragazzino delle medie dice “figo” quando legge “Pornostalgia” (Willie Peyote). Se la musica almeno fosse decente, avrebbe un senso perlomeno guardarlo come oggetto di intrattenimento. E ho smesso di indagare ogni cosa, anche misera, per il solo gusto di comprenderla e di studiare il mondo della musica oggi, e che cos’è l’uomo: non sono un antropologo né uno psicologo, ed anche se fossi pagato farei tutto ciò malvolentieri.

Mi ritiro, mi “disinformo”, come diceva Carmelo Bene, cioè esco dall’alveo della forma imposta da un contenuto mediocre. Mi leggo “Canto alla durata” di Peter Handke, appena preso in prestito dalla biblioteca. Poi ho visto sul web che lui ha una casa fantastica, con bacche e frutta sparsa in giri, con libri per terra e dipinti collocati in qua e là e una vetrata tutt’intorno ricoperta da lenzuoli bianchi a metà finestra.

Ecco cosa farò, leggerò Peter Handke e sognerò la sua casa.

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