La vera egemonia culturale è quella di Giuliano Ferrara
Ci appropinquiamo a varcare la soglia del Salone del Libro di Torino con gli occhi ingenui e luminosi di chi vede un evento per la prima volta. E in realtà, per come alcuni la raccontano, parrebbe essere così: il primo Salone del Libro dell’Era della Destra, come se una qualche entità, chiamata, appunto, Destra, stesse puntando a - o fosse addirittura in grado di – appropriarsi di una egemonia della cultura, anzi della Cultura, o di una cultura (italiana) quando in realtà quell’egemonia se l’è presa, quatto quatto, Giuliano Ferrara con Il Foglio: Pietrangelo Buttafuoco alla Biennale di Venezia, Alessandro Giuli al Maxxi, Annalena Benini al Salone del Libro: terno al Lingotto! Dice: c’è la Rai, dice: ci sono i quotidiani con gli occhiali da sole di Antonio Angelucci, ma noi, incantati dal gramscianesimo doroteo di Giuliano Ferrara, esitiamo a considerarli ‘cultura’.
Allineiamoci alla direttiva che pare implicita: un colpo al cerchio, una alla botte, e uno alla cerbottana
Assistiamo, in qualche maniera, a uno scontro-incontro tra il newjournalism e il newdoroteism, laddove appunto si dice de Il Foglio che si tratti della prima faccenda quando invece è l’incarnazione della seconda. Ma ci stiamo spingendo forse troppo oltre, come ragazzini entusiasti, in questa interpretazione, quando ciò che avevamo in mente era dire che Gennaro Sangiuliano, per quanto riguarda la Cultura, non tocca palla. Ma il “newdoroteism” ci viene però in aiuto poiché rappresenta l’espressione colta di un convincimento aprioristico e, forse (non lo neghiamo) pregiudizievole, secondo il quale, in fin dei conti, questo SalTo della Benini sembra già un’edizione moscia, eccitante nel senso del: “Se trovo una che ci piace moscio la faccio impazzire”, come diceva l'Aldissimo Busi.
Varcheremo quindi l’ingresso al Salone con il candore degli abiti bianchi di Tom Wolfe sotto i quali indosseremo i pantaloni mimetici di Hunter S. Thompson, così, giusto per non farci mancare nulla, per allinearci alla direttiva che pare implicita del un colpo al cerchio, una alla botte, e uno alla cerbottana. Così passeremo da Chiara Valerio a Fedez, da Massimo Cacciari a Gianni Morandi, dalla sezione Editoria, diretta da Teresa Cremisi di Adelphi alla sezione Romance (quei libri che una volta si chiamavano “romanzi rosa” finalmente sdoganati dalla definizione in angloamericano: micidiale l’osservazione di Mariarosa Mancuso, ai tempi delle Sfumature di Grigio: “Il ses*o è la scusa ‘perbene’ per potere godere del guilty pleasure della storia sentimentale”). Dalla sezione Informazione, curata, in questi giorni altalenanti (e annalenanti), da Francesco Costa, alla sezione “Facce ride” curata da Luciana Littizzetto all’insegna delle leggerezza (ma non c’è Italo Calvino, né si parlerà di lui e delle sue “Lezioni Americane”). Dal Romanzo “letto”, sezione curata da Alessandro Piperno, la cui scrittura, nei momenti felici, stacca di parecchie incollature la narrazione visiva, alla sezione “Faccela vede’” di Francesco Piccolo che si occuperà di Cinema e Serie Tv. È una faticaccia farselo venire moscio, il Salone.
La raffinatezza “doroteism” della Benini dà insomma la cifra a questo Salone un po’ Foglio Review, che, detto amichevolmente, sembra un po' il New Yorker fatto dai cinesi
Entreremo quindi nel Tempio di questo ‘nuovo’ giornalismo, di questa ‘nuova’ visione della scrittura, di questa ‘nuova’ impaginazione (il “broadsheet” che vanta tra i precedenti il Financial Times) che potrebbe essere “larger than sheet” ossia “più larga del Foglio”, dove il newdoroteism, esonda dai tombini della ‘clandestinità corsara’ e dilaga per i capannoni della Buchmesse, della “Fiera” del Libro un concetto Settecentesco del Salòn, “esclusivo” (vedere Roberto Calasso, “La Rovina di Kash”, in ispecie dove racconta la visione di Talleyrand di fronte allo scatafascio).
E la prima novità che siamo ansioni di vedere è proprio l’OFF Sheet, il Fuori Salone, il Fuori dal Foglio, idea spritzettina presa dal Salone del Mobile ma coniugata, a Torino, al rionale: scorrendone gli appuntamenti, già pronti con un qualche mocassino vistoso infibiato, affibiato, infibulato (quest’ultima declinazione come citazione e protesta, Ça va sans dire) ci siamo fermati sulla soglia dell’uscio piroettando sui tacchi: siamo qui per respirare aria da alte vette, vogliamo l’Engadina delle Lettere, e infatti si salirà “Sul Tetto del Lingotto”, alla “Pista 500”, tra installazioni artistiche, un “fuori salone” dentro il salone, o meglio sopra il salone: i tetti, un po’ bohemienne, un po’ piccioni, sperando portino bene a chi sta in basso, dove gli eventi verso i quali scapicollarsi sono “Self-Portrait. Il museo del mondo delle donne” di Melannia Mazzucco, responsabile della sezione “Arte”, evento, riportiamo come da comunicato, “nel quale le donne rivendicano il diritto di realizzarsi nell’arte, superando i ruoli che la società e la cultura del tempo hanno sempre assegnato a loro”: una preside di una scuola media non avrebbe saputo descriverlo meglio, l’evento sul tetto che ascolta, anche se questa faccenda di mettere le donne nel museo, volendo essere, come aspiriamo, woke, ci sa di patriarcale.
E Spazio, proprio nel senso di spazio, con un palco montato all’aperto, anche alla musica, più raccontata che suonata, più vissuta che ascoltata, più meditata che cantata, più scritta che incisa (spero che questi inconti siano prodromici, come si dice, a un palco dell’anno prossimo venturo in cui, finalmente, gli scrittori potranno cantare in un karaoke col riverbero messo forte) dove segnaliamo senz’altro Gianluca Grignani, Roby Facchinetti, Enrico Ruggeri, Er Piotta, Big Mama, Manuel Agnelli, ma anche “Greg” (quello che non è Lillo, ma è anche un bravo musicista) e Luca Bizzarri che spesso riserva sorprese.
Segnaliamo, con rispettosa riverenza, un momento riflessivo al liminare di una certa religiosità, nell’omaggio a Carla Lonzi, prototipo della femminista radicale alla quale si deve la scoperta che “l’oppressione della donna non ha inizio con il capitalismo ma molto prima”, cosa che noi profani, e soprattutto maschi orribili e patriarcali avevamo, intuito senza però saperlo esprimere, e che facevamo rozzamente risalire alla scoperta non dell’oppressione della donna ma della “clava” che precedette persino la scoperta del fuoco e della ruota (intesa come figura da ginnasta).
Tra gli stranieri io non mi perderei James Ellroy, Sayaka Murata e Don Wislow. Ma arriva anche l’uberbestsellerista Joel Dicker e il premio Nobel Orhan Pamuk. Presente anche Nicolas Barreau, autore di successi editoriali sotto pseudonimo, che ha promesso di svelare la propria identità al Salone (probabilmente è Lillo).
La raffinatezza “doroteism” della Benini dà insomma la cifra a questo Salone un po’ Foglio Review, che, detto amichevolmente, sembra il New Yorker fatto dai cinesi.
Infine e controcorrente, per quanto riguarda il superevento, ossia l’accoppiata Roberto Saviano-Salman Rusdhie, direi di farci un passaggio veloce, come si dice, da guardare con un occhio solo.