Il più grande anarchico d’Italia, Antonio Ricci, raccontava in un’intervista che quando gli viene in mente un’idea sovversiva, una parte di lui lo spinge all’azione, ma un’altra lo trattiene per evitargli seccature in seguito. A quel punto, una terza forza gli suggerisce di agire, ma con moderazione, ma a quel punto ecco una quarta forza a far notare che la moderazione non è divertente, se si è deciso per l’azione, allora che si vada fino in fondo. Quando ho ascoltato la surreale risposta del direttore della fondazione Bellonci Stefano Petrocchi a chi, inclusa la sottoscritta, ha fatto notare l’assurdità del regolamento del Premio Strega, con 81 libri proposti da leggere in 30 giorni, ho pensato di rispondergli; poi ho esitato, perché chi ama la letteratura certe cose per sopravvivere deve far finta di non ascoltarle, meglio chiudersi in casa con un Calvino e far finta che siano gli anni ’60; poi però ho deciso di rispondere, non foss’altro per le persone che mi hanno scritto su Instagram, entusiaste del mio scritto, rivelatrici –di una grande verità consolatoria: il pubblico qualunque, i lettori cosiddetti normali, sono assai meglio di un’industria culturale che invece di essere al servizio dei primi fa esclusivamente i propri interessi.
Nella sua risposta, il Direttorissimo esordisce citando il film “American Fiction”, premiato di recente con l’Academy Awards per la migliore sceneggiatura non originale. Quando l’ho sentito non credevo alle mie orecchie: “American Fiction”, basato sul romanzo “Erasure” di Percival Everett, è un film satirico, un meraviglioso affresco dell’assurdità del momento storico in cui viviamo (ed essendo il libro scritto nel 2001, dal carattere incredibilmente profetico).
Nella storia, il protagonista Thelonious Ellison è uno scrittore afroamericano di libri di qualità, che per frustrazione scrive sotto falso nome un libro ridicolmente stereotipato, che nelle sue intenzioni dovrebbe essere una boutade. Peccato che il libro, intitolato in maniera esilarante “Fuck!”, venga preso sul serio da un’industria culturale governata dall’élite dei liberal bianchi, e divenga un caso editoriale, tanto da vincere un importante premio letterario.
“American Fiction” è, insomma, la satira di una cultura ancella dell’ideologia, dove non conta la qualità dell’opera ma il ruolo sociale dell’autore, dove la retorica dell’inclusività è diventata mera strategia di marketing, e nelle librerie ci sono le etichette sugli scaffali con sopra scritto “libri scritti da donne” o “libri scritti da neri” come fossero specie protette.
Ecco, nel film, il protagonista viene invitato – in quanto nero, of course – a far parte della giuria del premio in questione; aldilà dei momenti esilaranti, in cui vediamo le sue smorfie di “dolore letterario” mentre ascolta fini intellettuali tessere le lodi del suo concentrato di retorica, i giurati si lamentano della grossa mole di libri che tocca loro leggere, arrivando ad un accordo per leggere solo le prime 100 pagine di ogni volume.
Ebbene, questo episodio è stato utilizzato dal direttore della Fondazione Bellonci per dimostrare, secondo lui, che tutti sanno che i giurati dei premi non leggono davvero i libri, e solo chi ha una concezione “stupida” (cit.) della lettura può pensare il contrario.
Ora: l’analfabetismo funzionale si definisce come “la condizione di una persona incapace di comprendere e valutare un testo scritto”; noi non vogliamo certo insinuare che un intellettuale di tale rango sia un analfabeta funzionale sotto mentite spoglie, ma è chiaro che qui siamo davanti a una satira nella satira, a una gigantesca incomprensione del testo - il film “American Fiction” - che viene citato.
Come detto, il film rappresenta una satira: di molte cose, inclusa l’industria letteraria moderna basata sui premi come lo Strega, accusati di non aver alcun valore letterario. E uno degli elementi che l’autore mette in scena per provare il suo punto sta proprio nella follia dell’assurdo numero di libri candidati, che rendono una competizione basata sul merito impossibile. Fraintendendo questo significato satirico, operando cioè una lettura puramente denotativa, senza cogliere minimamente il senso umoristico, il Direttore della fondazione, sul palco del premio
Strega, ha veramente utilizzato questo esempio per sostenere la perfetta “normalità’” di avere un numero di libri in gara così alto tale da renderne impossibile la lettura, e definendo “stupido” chi se ne stupisce.
Anche perché, proseguendo nel suo intervento, il Direttore si è vantato di quanto il Premio Strega sia “inclusivo”, di quante donne siano candidate e non da oggi: cioè, ha dato fiato a quel modo di pensare che è esattamente l’oggetto della satira di “American Fiction”, che invece si pone culturalmente all’opposto, e critica in modo spietato l’idea che il valore di un’opera risieda (anche o soprattutto) nel genere o nel colore della pelle di chi l’ha scritta. Insomma: parlare di satira non accorgendosi di essere l’oggetto della stessa. Incredibile
Ma forse ancora più incredibile, forse, è stato il passaggio successivo, quando il Direttore ha citato la famosa battuta di Umberto Eco sui libri non letti della sua libreria (per inciso: se gli eredi di Umberto Eco si facessero dare un euro per tutte le volte in cui il loro parente viene citato a sproposito, diventerebbero i primi contribuenti italiani).
Qui, di nuovo, sono rimasta basita: la battuta di Umberto Eco serviva a spiegare l’utilità della libreria come strumento di lavoro, come estensione cartacea della propria anima, più che come collezione di scalpi di libri letti. Che cosa c’entri questo con un concorso letterario lo sa solo il Petrocchi, che mi ha ricordato quelli che, quando non sanno cosa dire, si rifugiano nel latinorum. Ecco, se avesse detto “linoleum”, come Totò, avrebbe fatto almeno ridere; invece, scegliendo di citare Sua Maestà Eco, bisogna rispondergli.
Vede direttore, il professore universitario Umberto Eco non si sarebbe mai sognato di dire che, visto l’alto numero di test d’ingresso svolti o di curriculum ricevuti, la facoltà non è riuscita a esaminarli tutti e solo uno stupido potrebbe pensare il contrario.
L’organizzatore di un premio letterario, per rispetto di chi partecipa alla gara non dovrebbe, in un Paese normale, dare dello stupido a chi pensa che tutti i libri proposti siano meritevoli di una lettura: e invece questo è quello che accade da noi, e non a una sagra della salsiccia con ambizioni intellettuali, ma alla conferenza stampa di presentazione del premio più importante.
Perché a questo punto, caro Direttore, le domande: se i libri non devono essere letti tutti, quante pagine sono bastanti? 100, come nell’American Fiction di cui lei non ha evidentemente compreso la portata satirica? Con 81 libri in gara fanno comunque 8 mila pagine in un mese. Troppe. 50? 30? Quante pagine vanno lette per non essere considerate degli stupidi? E se non conta il numero di pagine lette, allora cosa? La copertina colorata? Il riassunto contenuto “nell’aletta”? O la raccomandazione dell’amico dell’amico, del buon Walter o dell’amica Lory?
Ce lo spieghi Direttore, ce lo spieghi a noi stupidi che crediamo ancora che per valutare il merito di un’opera bisogna prima leggerla (nel contesto di un concorso ovviamente, non certo del proprio svago privato, dove un libro posso anche buttarlo nel fuoco dopo mezza pagina, se mi fa girare le scatole, come alla sottoscritta capita sovente).
E magari, lo spieghi anche agli scrittori che sono stati esclusi. Spieghi bene la motivazione per cui il loro libro non letto vale meno del libro selezionato. Spieghi bene perché per lei, il loro lavoro non merita nemmeno la lettura di una pagina. Siamo tutti molto curiosi.