Paolo Del Debbio lo ricordo un lunedì mattina di tanti anni fa, in un ascensore di Mediaset del distaccamento di Milano 2. “Era il giorno dopo la vittoria del Milan nel derby in rimonta, grazie a un missile terra-aria scagliato contro Toldo da Clarence Seedorf (altri tempi, altro Milan). Ancora ubriaco di gioia e non solo, raccontavo a un collega il contenuto di uno striscione apparso allo stadio (c’era ancora la Fossa dei Leoni: altri tempi, altra curva): “Interista animale mitologico: corpo di uomo, testa di cazzo”. Ci mettemmo tutti a ridere come non ci fosse stato un domani. Oggi Paolo Del Debbio ha pubblicato un libro, In nome della libertà (Piemme) di cui i giornali hanno parlato perché riporta i famosi quattro fogli scritti da Silvio Berlusconi al San Raffaele poco prima di morire. Il contenuto di quei fogli non lo commenteremo, mentre ci occuperemo del tema centrale del libro, ovvero stabilire quale sia l’eredità politica di Silvio Berlusconi e della sua famigerata “rivoluzione liberale”, a trent’anni dal 1994. Da quella data, ma anche dal 2004 - anno dell’incontro in ascensore con Del Debbio di cui sopra – sono cambiate molte cose. Il Milan arranca, ha vinto uno scudetto in 13 anni, e forse , lunedì, subirà l’onta suprema, quella dell’Inter che arriva alla seconda stella vincendo il derby; Del Debbio è certamente più ricco, più magro e più figaccione di allora, ma da intellettuale di nicchia che occupava signorilmente uno slot mattutino su Canale 5, è diventato il poster boy del giornalismo televisivo populista di Rete 4; soprattutto, dell’ottimismo di fondo che accompagnò la discesa in campo del primo Berlusconi non è rimasto davvero nulla. Il Cavaliere è morto senza aver lasciato eredi o delfini, e il vuoto è stato riempito da personaggi di cui gli intellettuali citati nel libro come ispiratori del programma originale di Forza Italia avrebbero avuto orrore. E con buona pace della figlia Marina, sinceramente convinta che il destino del mondo, a cavallo tra i due millenni, sia veramente passato da Arcore, la rivoluzione liberale è rimasta lettera morta, così come ogni altra velleità di cambiare in meglio il Paese.
Ricordo quando incontrai Berlusconi (di cui mio padre fu per tanti anni dentista e amico) a casa sua, ad Arcore. Erano i suoi ultimi anni di gloria, con lo scandalo del bunga bunga scoppiato da qualche mese. Pensavo di trovarvi caviale e champagne, ballerine scosciate e consigliere regionali botulinate, e invece trovai un anziano che sbocconcellava biscotti Galbusera inzuppati nel the, borbottando contro il Tempo che passava mortificando tutto. Una scena da tardo impero, rivelatoria di una condizione esistenziale: quella di un uomo che aveva fatto credere a tutti di essere onnipotente, e che invece, nel bene o nel male, era semplicemente un essere umano. Un essere umano che, da solo, non avrebbe potuto fare neanche un decimo dei miracoli promessi in quello o in altri programmi elettorali, perché l’Italia è una Repubblica fondata sul compromesso, il suo funzionamento profondo – con il bicameralismo perfetto, il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, e tanto altro – è stato immaginato e costruito proprio per evitare che persone dagli eghi troppo espansi, pur animati da ottime intenzioni, operino riforme radicali. E infatti benché, dopo di lui, a cambiarlo ci abbiano provato in molti – ieri D’Alema con la Bicamerale, Renzi con il suo referendum sul Senato, i Cinque Stelle del Parlamento scatola di tonno, oggi Giorgia Meloni con il suo Presidenzialismo – l’assetto della Repubblica, pur non funzionando da un pezzo, è rimasto invariato e, salvo arrivi di meteore come quella che costò l’estinzione ai dinosauri, invariato resterà fino alla fine dei giorni.
Ma allo stesso tempo, un essere umano che, da solo, non avrebbe potuto fare neanche un centesimo del Male Assoluto che le autonominate sentinelle democratiche hanno preconizzato per un ventennio. Ad ogni tornata elettorale era tutto un parlare di baratri su cui volteggiavamo come idioti inconsapevoli, di abissi dentro cui saremmo caduti se ci fossimo azzardati a votare e a far vincere il Cavaliere Nero… e poi però il Cavaliere Nero vinceva – o se andava male pareggiava - ma le nostre vite andavano avanti come se nulla fosse, perché la realtà è che dagli anni ’90 in poi la politica ha smesso di essere centrale in qualsiasi società Occidentale, il debito pubblico è una pistola puntata alla tempia e le ragioni del libero mercato riducono ad acquario lo spazio d’azione dei Governi nazionali, tanto è vero che a nessuno frega nulla dei programmi, il voto lo si da come fosse il televoto di Sanremo – un giro a questo e il giro dopo a quest’altro, così, per provare – nessuna persona sana di mente pensa davvero che le nostre vite cambino sulla base di chi ci governa al momento. Il dibattito sull’eredità di Silvio Berlusconi allora, a parere di chi scrive, non è funzionale a sollazzare nessuno dei due opposti estremismi che ne hanno accompagnato il Ventennio al potere, ed è anzi magnificamente rappresentato da un’altra immagine rivelatoria, ovvero dalla solitudine dell’emiro del Qatar al suo funerale.
Se Berlusconi fu davvero questo fior di statista internazionale, dov’erano, in quella occasione, i grandi leader del mondo? Perché nessuno, tra i potenti della terra, ha presenziato all’evento storico del suo funerale? Quelle facce orrendamente martoriate dalla chirurgia estetica viste al Duomo di Milano lo scorso giugno facevano pensare a un ritrovo fuori tempo massimo di avanzi di balera, più che alla grandeur che, in Francia, ha accompagnato i funerali di Stato di Jacques Chirac. Ma se Berlusconi fu, all’opposto, questo Torquemada a basso voltaggio colpevole di aver violato l’orifizio morale del paese, penetrandolo fino al midollo, fino a snaturarlo e a corromperlo tanto da cambiarne il Dna, perché oggi Berlusconi appare, comunque, un gigante politico rispetto ai guitti col fez, ai giullari in pochette, alle macchiette arcobaleno di oggi? Quando morì l’amico Gheddafi, il Cavaliere se la cavò commentando “sic transit gloria mundi”. Considerando la folla al suo funerale, con Barbara D’Urso al posto della Merkel e l’emiro al posto di George Bush, viene da pensare “sic transit gloria Silvio”, la sua l’eredità è identica a quella che l’allenatore Stefano Pioli si appresta a lasciare tra qualche settimana al Milan: inesistente. O, per meglio dire, ininfluente. Del resto, basta dare un’occhiata a TikTok, vero metronomo dello zeitgeist moderno: lì sopra, i ragazzi di oggi, Berlusconi lo considerano e lo ricordano esclusivamente per quanto di più vacuo e mondano possa esserci: la sua esagerata, ossessiva, passione per la figa. Umano, troppo umano.