Ha il titolo che rievoca una fiction Rai con Lino Guanciale l’ultimo documentario che racconta, attraverso un forsennato tour de force in tre puntate approdate su Netflix qualche giorno fa, l’irresistibile e apparentemente inevitabile ascesa di Silvio Berlusconi da spregiudicato palazzinaro delle periferie milanesi a figura di primissimo piano della scena politica nazionale ed europea, in grado di cambiare per sempre nel bene e nel male (per alcuni malissimo) la geografia sociopolitica del nostro paese. Chi era Berlusconi? Era tantissime cose, ci dice la miniserie diretta da Simone Manetti e scritta da Matteo Billi e Piergiorgio Curzi e lo fa nel modo ormai canonizzato da prodotti audiovisivi di questa tipologia, attraverso testimonianze inedite di molti intervistati illustri e preziosi materiali di repertorio. Era un imprenditore edile visionario, capace di immaginare una città del futuro modernissima dove negli anni ’70 c’era al massimo qualche boschetto stempiato e insediamenti di nutrie; era un grande seduttore, in grado di ammaliare decine di imprenditori desiderosi di aumentare le vendite delle proprie aziende attraverso le sterminate campagne pubblicitarie che si estendevano a perdita d’occhio nei palinsesti delle sue reti televisive, pensati per “intrappolare lo spettatore”; era uno spietato conquistatore, un “uomo del fare” come si definisce lui stesso all’inizio, che non si fa la minima remora quando si tratta di forzare leggi e usare la propria influenza politica per ottenere benefici a scapito di terze parti.
I tre episodi non hanno né un tono elegiaco/agiografico né tantomeno un piglio accusatorio ma si limitano a mostrare attraverso numerose pepite audiovisive reperto di un’epoca ormai lontanissima la sua cavalcata trionfale da Milano 2 fino al centro del potere assoluto, il Consiglio dei Ministri, lasciando ai numerosi intervistati illustri il compito di dare giudizi: Fedele Confalonieri, Pino Corrias, il solito dandy Carlo Freccero, Vittorio Dotti e soprattutto un istrionico Marcello Dell’Ultri (che qui ha ultimato la sua trasformazione fisica in Robert De Niro e sembra uscito dal cast di The Irishman). Vediamo un Silvio sempre sorridente e in controllo, al massimo preoccupato di avere i capelli “troppo gonfi dietro” durante la storica, profetica intervista con Mike Bongiorno, talvolta sudato e vagamente perplesso mentre la prima Repubblica si disintegra sotto i suoi occhi, Craxi diventa il capro espiatorio di tutti e lui perde i suoi appoggi politici. Vedere quelle immagini sgranate, vedere quei vox populi di persone che guardano a Silvio come al nuovo dopo il crollo del sistema partitico italiano, vedere Milano che da fosco conglomerato industriale diventa il sol dell’avvenir mi fa tornare indietro all’infanzia e all’adolescenza. Mio padre era un socialista di ferro, aveva anche conosciuto Craxi. Per lui Berlusconi rappresentava il pragmatismo che avrebbe transitato l’Italia da paese che si era appena industrializzato, lasciandosi più o meno alle spalle un passato agricolo, a potenza europea o comunque: avrebbe fatto meglio lui dei “comunisti”. Per me invece rappresentava il diavolo: aveva le televisioni, veicolava i messaggi che voleva influenzando l’opinione pubblica, era intrallazzato. Aveva giornali, tv, concessionarie della pubblicità, squadre di calcio. Io mi ostinavo a votare il Pd e mio padre mi derideva. Ma riconoscevo a Berlusconi delle qualità, a differenza di molti miei coetanei per i quali lui era solo il male assoluto: era il diavolo sì, ma seducente. Era divertente, aveva carisma. Forse perché in quel periodo lavoravo con Publitalia (successivamente avrei lavorato anche a Mediaset) e vedevo come lo consideravano i funzionari della concessionaria. Per loro era una divinità, aveva cambiato la loro vita, aveva dato loro uno scopo e un benessere inedito fino ad allora grazie alla forza della propria visione. Lo capivo questo. Ricordo quando Rolling Stone, nella persona dell’allora direttore Carlo Antonelli, gli dedicò nel 2009 una copertina stile Banksy definendolo “rockstar dell’anno” facendo incazzare tutti quanti, a me sembrò bellissima.
Certo, Berlusconi era quello dei debiti, delle leggi ad personam, degli scandali extraconiugali, della tv trash sessualizzata, però era eccitante vederlo mescolare pubblico e privato con questa nonchalance, era umano constatare la sua assoluta vanità, cercare di nascondere le proprie fragilità, il voler essere sempre al centro dell’attenzione cercando di divertire e divertirsi. Tutto il contrario rispetto ai politici puri, seri, formali e foschi come le giacche che indossavano. C’è un passaggio abbastanza struggente verso la fine de Il Giovane Berlusconi in cui Achille Occhetto ricorda il celebre Braccio di Ferro Televisivo moderato da Mentana con Silvio. Sembra più giovane in questo documentario rispetto ad allora, ha l’aria austera ma stanca di un preside di liceo che non vede l’ora di andare in pensione, ha una giacca marrone, identica a quelle di mio padre (lui negava ma alla fine si vestiva come Occhetto e aveva i baffi, che, come ogni forma di peluria sul viso, Berlusconi odiava). Silvio è stempiato ma raggiante, fresco, ha una spilla del suo neonato partito che sembra splendere di luce propria. Tutti hanno lo stesso sospetto ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Solo il giorno dopo, quando i giornali parlano quasi solo di quella giacca marrone di Occhetto (“è stata una cosa fortuita, l’ho messa perché l’altra che avevo si era macchiata” dice lui ammettendo teneramente che per un politico di vecchia a scuola i comizi erano ancora più determinanti della tv) capiremo che lui è il nuovo che avanza, che la sinistra è spacciata. Ora che sono passati trent’anni la sensazione è che sia stata una specie di allucinazione collettiva.
Sto parlando delle mie, delle nostre percezioni rispetto al fenomeno Berlusconi perché la miniserie Netflix è capace soprattutto di fare questo: raccontare come eravamo noi, più che lui, attraverso l’epopea dell’edonismo catodico di Fininvest, delle tette del Drive In, della ruota di Ok Il Prezzo è Giusto, delle merendine industriali che trionfano sul pane burro e marmellata dei nostri genitori, delle mamme che inferocite scrivono lettere a Palazzo dei Cigni perché il pretore di Roma ha interrotto le trasmissioni di Italia 1 e i figli non possono più vedere I Puffi. Manca del tutto il Dark Side Of Berluscoon, quello che in Wanna per esempio dà una sferzata imprevedibile alla serie, legato ai presunti rapporti con la mafia, il Bunga Bunga, l’ossessione di piacere a tutti, i giri del denaro, la famiglia. Ed è un peccato se pensiamo che la vita di Berlusconi è stata un film di Scorsese, un The Wolf Of Cologno Monzese più vera della finzione. Certo, c’è qualche aneddoto clamoroso: penso a Freccero che racconta che nella serata di lancio della sua emittente francese La Cinque il Cavaliere vede aggirarsi in studio Serge Gainsbourg nella sua iconografia classica (capello sporco, vestiti stropicciati, barba di una settimana, occhio pesto e sigaretta penzolante) e urla: “Chi è quel barbone che è entrato nel mio studio?”. L’impressione generale però è quella di aver assistito a un insta-movie abbastanza innocuo, un bignami confezionato in fretta sull’epopea di B per chi è entrato in una bara criogenia nel 1970 e ne è uscito solo oggi. Una scritta in testa al programma informa che le interviste sono state realizzate prima della morte del Cavaliere. Forse è semplicemente troppo presto per sperare di vedere un racconto esaustivo sulla vita e le imprese di Berlusconi, uno che quando è morto e abbiamo visto la foto della gente in lutto stipata dentro il Duomo in cui c’era anche il Gabibbo, ci ha fatto dubitare per un secondo del fatto che fosse vera.