Questa estate vanno tutti in Albania. Me lo hanno detto tutti coloro ai quali ho raccontato il mio viaggio prossimo venturo, tutta gente, per altro, che non sarebbe poi andata in Albania. Immagino, per dirla con Umberto Tozzi, che in questo caso noi non siamo gli altri, qualsiasi cosa volesse dire a suo tempo. Di fatto io e la mia famiglia, o almeno quella parte della mia famiglia che ancora segue me e mia moglie Marina senza opporre resistenza, cioè i nostri tre figli Tommaso, diciotto anni appena compiuti, e i gemelli Francesco e Chiara, dodici anni a settembre, assente giustificata Lucia, ventidue anni nei prossimi giorni, quindi giustificata proprio dai suoi ventidue anni, stiamo andando in Albania, dove sembra quest’anno vadano tutti. Lo stiamo facendo con una nave che parte da Ancona, città natale mia e di mia moglie, oltre che dei nostri due figli maggiori, una nave della Adria Ferries che si chiama a sua volta Marina, e lo stiamo facendo circondati da gente prevalentemente non italiana, albanesi molti, francesi, spagnoli. Dei tutti che ci dovrebbero andare poi non ci torno più, nessuna traccia.
Lasciare Ancona e l’Italia per andare in Albania, in questa estate, potrebbe essere facilmente metaforizzabile. Farlo con la lentezza pachidermica di una nave, che mentre lascia il porto ci mostra anfratti della nostra città che mai avevamo visto in tale guisa, è invece uno spettacolo reale, a prescindere da qualsiasi disquisizione più o meno coerente. Sono molto curioso di vedere Ancona dal mare, specie il Passetto, che è poi la parte di Ancona rivolta a est, dove si trova il monumento ai caduti costruito durante il fascismo, monumento che è in effetti un fascio littorio bianco e che sovrasta una scalinata doppia a ellissi che dicono dal mare dia l’idea delle ali di un’aquila, una piccola scalinata finale, sul mare, a fare la coda del volatile così amato durante il ventennio. Una immagine, questa, visibile solo dall’alto, o dal mare, quindi da una nave rivolta a sud. Il porto, per altro, è a due chilometri esatti dal Passetto, rivolgo a ovest, i tre corsi principali, piazza Cavour, dove sorge il Municipio, anch’esso eretto durante il ventennio, e poi il viale, tipograficamente chiamato viale della Vittoria, non fatemi dire chi lo ha costruito, a dividere il tutto.
Ancona ha il mare che regala l’alba al Passetto e il tramonto al porto, spettacolo, ci tengono a dire qui, unico per una città non insulare. Proprio questo trovarsi il porto della parte opposta del Passetto fa sì che in realtà noi l’aquila che ha il monumento ai caduti come testa e le scale a ellissi come ali non la possiamo vedere, se non in lontananza, quasi irriconoscibile. Come del resto capita al resto della città, le grotte, Portonovo, buona parte del Conero. Vediamo invece un sacco di meduse giganti, finché il vento non si fa troppo forte per poter rimanere sul ponte. Banchi di meduse gigantesche, e niente aquile, questa la partenza.
Abbiamo optato per le poltroncine, invece che per le cabine, perché siamo cinque più auto, e andare in Albania e spendere come andassimo in Costa Azzurra ci sembrava poco coerente. Il tempo di trovare la zona dove poi passeremo la notte, trovare gente che ha occupato i nostri posti e sentirci dire che il numero del posto è simbolico, simbolico di cosa non ci è stato ovviamente spiegato, e siamo partiti per un giro di perlustrazione della nave, le nostre felpe a occupare quelli che simbolicamente saranno i nostri posti. Prima cosa che ho capito della nave è che chi ha preso il posto ponte, cioè chi in teoria dovrebbe passare la notte all’aperto, in realtà starà al bar. Tutte le poltroncine e i tavolini annessi, infatti, sono occupati da intere famiglie, con figli e a volte anche cani. Qualcuno ha anche gonfiato giganteschi materassini matrimoniali negli spazi che portano alle scale, per cui facendole ti trovi di fronte piedi e culi familiari. Seconda cosa che abbiamo capito è che la favoleggiata sala cinema è in realtà uno spazio del bar, anch’essa occupata da gente col biglietto per un posto ponte. Ultima, per ora, che il posto ponte è impraticabile. E lo è proprio per il fortissimo vento cui facevo riferimento prima, insopportabile di giorno, figuriamoci di notte. Rientrati nella sala poltrone scopriamo che qualcuno ha occupato il nostro posto, spostando le nostre felpe. Lo ha fatto in parte legittimamente, erano posti indicati nel loro biglietto, in parte a caz*o, una famiglia albanese che copre quattro generazioni ha ben visto che i posti che avevamo scelto noi, in prima fila, quindi con la possibilità di allungare le gambe, era più comodo per loro, e hanno giocato sulla nostra assenza, contrapponendo poi la faccia di chi finge di non capire cosa dici quando abbiamo chiesto ragioni. Alla fine ci siamo presi i nostri posti originali, quelli indicati sul biglietto, spostando a nostra volta felpe. Al nostro fianco c’è un padre e una figlia che giocano a carte seduti in terra, su due tappetini azzurri di quelli che si usano per fare yoga. Sono anche loro albanesi e giocano a una specie di uno, con carte con su teschi e altre amenità. Vince sempre il padre, giovane, che non perde occasione di bullizzare la figlia tipo Giovanni di Aldo Giovanni e Giacomo in Tre uomini e una gamba con l’odioso ragazzino. Una seconda figlia sta stesa su due sedili a dormire. Diversi dei posti di questa sala sono occupati così, da albanesi che stesi si prendono intere file, del resto ci sono un sacco di posti vuoti. È una sola presa di corrente, che per tutta la notte sarà ambita da chi deve ricaricare il cellulare.
Io mi riposo un poco, perché caricare la macchina è stato un po’ stressante. Siamo partiti per tempo da casa, a neanche due chilometri dal porto, abbiamo fatto il check-in e siamo andati verso il porto. Giusto qualche minuto di coda all’ingresso. Arrivati alla nostra banchina la polizia ci ha controllato i documenti, mentre io parlavo con la guardia giurata al casottino, Andrea, mio amico di gioventù che recentemente ha ceduto la sua edicola ricominciando con questo lavoro. Dio quante metafore oggi. Arrivati alla nave un tipo con l’elmetto, altra metafora, ha fatto scendere il resto della mia famiglia, e poi mi ha fatto salire il ponte in retromarcia, dicendomi poi, sempre in retromarcia, di imboccare una stretta discesa che porta nel cuore della nave, dove mi ha fatto parcheggiare la macchina incastrata tra mille altre, circa dieci centimetri a distanza delle altre. Una faticaccia. Risaliti siamo andati sopra, con tutto il resto che ho già raccontato.
Mi risveglio di soprassalto, perché mi sono assopito qualche minuto. E vedo che il padre albanese non sta più giocando a carte. Al suo posto, sui tappetini, le due figlie. Quella che già c’era è seduta e si abbraccia le gambe, pensierosa, l’altra sembra dormire. Tempo qualche secondo e torna il padre, con dei membri dell’equipaggio, scoprirò di lì a qualche secondo, lo staff medico. La ragazza si è infatti alzata dai due posti che occupava, è uscita a vedere il mare, e scendendo una delle scalette che portano nei vari ponti, scalette nel mentre bagnate dal mare e dal sale, è scivolata battendo la schiena e facendosi molto male. Durante la visita del dottore, che nei fatti per come parla e si muove avrei detto fosse il barista prestato all’occasione alla medicina, urla di dolore. Tempo qualche minuto e arrivano altri membri dello staff con una barella di quelle che si smontano e si rimontano una volta fatte scivolare sotto la schiena di chi, evidentemente, non può muoversi. La ragazza è il resto della sua famiglia va via, e durante la notte più volte il padre, che incontreremo casualmente, ci dirà che la ragazza è molto dolorante e che scesa verrà direttamente portata in ospedale. Una vera sfiga, che poco si addice al quadro di rilassatezza festosa che vederli giocare a carta infondeva nella sala. Cinicamente noi abbiamo conquistato i loro posti, avendo così un paio di sedili a testa per la notte. Io, padre di famiglia in senso patriarcale, stiamo in fondo andando in Albania, addirittura quattro. E a proposito di patriarcato, nella sala ci sono dei bambini piccoli, chi scrive ne ha quattro, ormai cresciuti, ma che sono stati piccolo, e quindi ben sa, e voi non potete capire quanto rompano i coglioni i bambini piccoli in nave. Uno, maschio, tre anni circa, urla e corre scalzo, assecondato dal padre e madre, incapaci di contenerlo. Anzi, la madre gli insegna parole in italiano, parole come “nero” o “arancione”, e lui le urla tutto il tempo, perforando i timpani. L’altro, di meno di un anno, urla e basta, infastidito dal mare. Gli uomini della famiglia, quelli che ci hanno fottuto i posti all’inizio non si vedono più e li rivedremo solo al momento di scendere, o poco prima; le donne, madre, nonne e zie, si alternano cullando il passeggino o, vecchi metodi anche del nostro passato, azzarda mia moglie, cullando il piccolo tenuto dentro un telo, una a tenerne gli estremi da una parte, una dall’altra. Scesa affascinante, antica, arcaica, assolutamente patriarcale, gli uomini altrove a dormire, loro a cullare il piccolo, che se no rompe il cazzo a noi. Quando scenderò credo che smetterò di abbassare la tavoletta dopo che ho pisciato, o forse neanche la alzerò per farlo, paese che vai usanze che trovi. La cosa buffa, si fa per dire, è che il giorno prima di partire, cioè tecnicamente ieri, con tutta la famiglia, compresa Lucia, assente nel viaggio, siamo andati a vedere Barbie, film discutibile su alcuni aspetti, ma ritengo comunque utile nel far passare certi messaggi alle nuove generazioni, probabilmente non alle nuove generazioni albanesi, così, a occhio.
Prima di dormire facciamo un giro fuori, attenti a non cadere con il ponte bagnato. C’è una luna rossa che fa quasi paura. Il tempo di vederci un film, Paradise su Netflix, che proviamo a dormire, la mia borsa con la felpa a renderla più morbida come cuscino. Il posto della famigliola albanese, il posto a terra dove giocavamo a carte, è ora occupato da tre ragazzi francesi, forse noi non lo sappiamo ma quella è un’area bisca. Giocano però poco, perché una tipa intima loro di tacere, che deve dormire. E in effetti dormirà davvero, perché a un certo punto cadrà stecchita dalla poltrona e passerà il resto della notte a russare a terra. Dormiamo e visto che soffro di insonnia il fatto che io riesca a dormire su delle scomode poltrone di una nave, quattro usate a mo’ di lettino, vi dice quanto io arrivi alle vacanze stanco. Alle sette un messaggio ci dice che il bar è di nuovo aperto, il che ci dice che prima era chiuso. Andiamo a fare colazione, col medico della nave che prepara i cappuccini (no, scherzavo). Stiamo arrivando a Durazzo. O almeno così crediamo. Perché le sedici ore indicate dalla compagnia si trasformeranno in realtà in diciannove ore, sembra di prassi a causa di non meglio precisate correnti contrarie, vedi le metafore. Quindi eccomi di nuovo a leggere a fatica La vendetta delle punk e a vedere un film in download, nello specifico un paio di episodi della seconda stagione di Good Omens. Diciannove ore di nave, roba da Crowley più che da Aziraphaele.