"Tutti i miei libri raccontano della morte. Purtroppo, quando ti tocca da vicino, inevitabilmente poi ti resta dentro".
È il 1993, Derek Rocco Barnabei viene accusato di omicidio e stupro della fidanzata Sarah Wisonsky. Due reati che all’epoca, in Virginia, venivano puniti con una condanna a morte. Il processo dura tre settimane, Derek non ha abbastanza denaro per difendersi ma si dichiara innocente e vittima di un complotto.
Alessandro Milan, che nel 2000 sta muovendo i suoi primi passi nella neonata redazione di Radio24, finisce per intrattenere una lunga corrispondenza con Barnabei, in più occasioni in diretta dal braccio della morte del carcere. La storia smuoverà l’opinione pubblica, il Parlamento europeo e Papa Giovanni Paolo II ma, nonostante tutto, Barnabei viene giustiziato il 14 settembre del 2000.
Un giorno lo dirò al mondo (edito da Strade Blu Mondadori, 304 p.) è il terzo romanzo di Alessandro Milan, da vent’anni giornalista per Radio24. È una storia di gavetta e di vita, ma soprattutto è guardare in faccia alla morte di un uomo ucciso dalla giustizia di stato.
Santalmassi insegna che non ci sono domande banali, comunque la speranza è di non farne. Il tuo libro appassiona innanzitutto perché è una bella storia di gavetta, una fase della vita con poche direzioni, molte opportunità e qualche responsabilità di troppo.
“Di fatto è stata la mia vera gavetta, perché gran parte di quello che ho imparato lo devo a questa storia, specialmente al rapporto con Santalmassi e con l’allora direttore di Radio24 Elia Zamboni. Nel libro mi sono interrogato molto anche sul cinismo richiesto da questo mestiere. Mentre la mia carriera progrediva, mettiamola così, c’era una persona che stava per morire e un’altra, Sarah, che era stata uccisa. Per raccontare vicende come questa diventa necessario essere un po’ cinici, anche se spero di mantenere sempre un aspetto umano nel mio approccio al lavoro”.
Il bilancio però non può che essere positivo, in fondo hai dato più di quanto tu abbia preso.
“Questo sicuramente. Devo dire che in qualche modo il fatto che Barnabei mi ringraziasse spesso mi ha consolato. Sarebbe morto, come tutti i condannati a morte, senza alcuna voce. Invece noi gli abbiamo restituito quella voce che nessuno si sarebbe sognato di dargli”.
All’epoca avevi appena trent’anni. Cosa ti ha lasciato questa storia?
“Sicuramente godere delle cose che tutti diamo per scontate, cose che quando perdi non hai più. In alcune interviste capitava che Derek si deprimesse pensando ai tramonti che non avrebbe più visto, all’oceano in cui non si sarebbe più tuffato e alla sabbia su cui non avrebbe più camminato.
Perdendole capisci davvero quanto queste cose, all’apparenza banali, siano in realtà importanti e preziose. Ho finito per apprezzarle di più”.
Spesso si pensa all’abolizione della pena di morte come ad una una battaglia fra tante. Come la plastica negli oceani o l’abbandono degli animali: tutto vero, tutto giusto, ma una causa come le altre.
“Anche per me era così, perché alcune cose fai fatica a capirle finché non le tocchi con mano. Questa storia mi ha aiutato a capire che a volte, quando le battaglie vengono corredate da un volto fatto di carne ed ossa, diventano qualcosa di più. Tutte le persone sensate sono contro la pena di morte. Finché appare come una pratica così distante però, che non ti toccherà mai, fai fatica a capire”.
"Ho il timore che ci siano altre persone coinvolte, che ho provato a contattare e che non hanno mai voluto rispondere, specialmente Michael Bain".
Nel tuo libro c’è un capitolo (il 13) molto descrittivo, in cui racconti i fatti in maniera molto asciutta. Mettendo in dubbio l’omicidio, il lettore finisce per mettere in dubbio la pena di morte.
“Per scrivere questo libro ho letto quattromila pagine di atti giudiziari. Ho letto proprio tutto, la descrizione e gli atti, e in quelle pagine si alternano la verità giudiziaria e quella di Barnabei, che sono del tutto conflittuali. La questione indiscutibile è che il processo, che è durato venti giorni, è stato indiziario e con delle discrepanze clamorose. Attenzione, questo non significa che Derek fosse innocente. Io non sposo la causa innocentista di Barnabei, ma dico che con queste discrepanze e un ottimo avvocato sarebbe uscito dall’aula di tribunale come non colpevole. Alan Dershowitz lo scrisse in un documento pro bono per la difesa, definendolo il caso di innocenza giudiziaria più clamoroso mai visto in vita sua. Che non vuol dire innocenza fattuale, ma che c’è il ragionevole dubbio. E probabilmente Dershowitz l’avrebbe tirato fuori dal carcere”.
Barnabei diceva spesso che la giustizia negli USA ha un cartellino del prezzo molto alto.
“Soprattutto perché non è stato un processo sommario. L’accusa è stata abilissima a portare la propria teoria, mentre la difesa si è rivelata ampiamente deficitaria. Parliamoci chiaro: la polizia è arrivata sul posto, il crimine era stato commesso nella stanza di Barnabei e lui era in fuga. Era ovvio che fosse il primo sospettato ed è giusto così, il problema è che questa teoria ha fatto perdere di vista tutte le altre possibilità. Tra cui, per esempio, quella che sia stato lui assieme ad altri”.
A suo tempo eri partito pensando che Derek fosse soltanto una vittima?
“Certo, lui ti investiva con una grande capacità dialettica, dicendo ‘aiutatemi perché sono innocente’. All’inizio gli credi, perché pensi al fatto che un uomo innocente verrà ammazzato nel giro di tre mesi. Però sono da sempre dubbioso e ho pensato che non dovessimo puntare su quello, altrimenti avremmo rischiato di batterci per una causa sbagliata. Il potere della radio però lo ha aiutato molto: lui si proclamava innocente, era bravo a parlare e il pubblico si è infatuato del personaggio. Nessuno ha letto gli atti giudiziari in Italia, ma per molti era innocente perché diceva di esserlo”.
È proprio l’Italia.
“Si, ma la cosa incredibile è che in America è il contrario. Nella famiglia di Sarah e tra i suoi amici non viene minimamente contemplata l’ipotesi che non sia lui il colpevole: è lui e basta, perché questo hanno stabilito giudice e giuria. È la forma talebana contraria rispetto a quella degli italiani”.
La morte di Derek è stata un’attesa lunga e snervante, aspettando un colpo di scena che non arriva mai.
“C’è stato un momento in cui dormivo col cellulare acceso sperando in una telefonata dalla Virginia, e questo mi ha fatto capire che avevo perso il senso della misura. Pensavamo ‘dai, lo salviamo, lo tiriamo fuori. Un giorno sarà libero e ci andremo a bere un aperitivo a Milano’. Anche per questo ho avuto bisogno di far passare molto tempo. Volevo avere la giusta lucidità, la freddezza e l’obiettività necessarie per raccontare questa storia”.
Un’attesa, per quanto diversa, che hai vissuto anche con la morte di tua moglie Francesca?
“È un altro mondo, ma è una riflessione interessante. Anche la mia agente letteraria me lo ha detto, tutti i miei libri raccontano della morte. E forse è così, purtroppo quando ti tocca da vicino inevitabilmente poi ti resta dentro. Il senso di una clessidra che sta per finire, ad un certo punto, può esserci. Con Francesca è stato soprattuto negli ultimi tempi, quando la situazione è peggiorata. All’epoca con Derek c’è stata molta empatia, anche se ovviamente non lo stesso coinvolgimento. Ma quando scrivo che alla fine dell’ultima diretta sono scoppiato a piangere è vero, sapevo che non l’avrei più sentito”.
Certo che, mentre scrivi un libro sulla pena di morte, magari non immagini che poi ti toccherà andare in giro a parlarne.
“Per me era diventata un’ossessione. Anche pensare a quello che è successo… ci ho perso il sonno. Chissà come è andata quella notte, avrò dato voce a un colpevole o invece era innocente? Era diventata un’ossessione, e quando finalmente ho scritto il libro è diventata un po’ anche degli altri. Per lo meno di quelli che vorranno leggerlo”.
In molti ti avranno chiesto come siano andate davvero le cose. Che idea ti sei fatto?
“Prima di tutto, non lo so. L’ipotesi più presumibile è che ci sia stato un delitto collettivo, ad un certo punto l’avvocato difensore l’ha anche ipotizzato. Nell’arringa parla di ‘gang bang’ e possiamo immaginare che sia andata così. C'è una casa di giovani con l’ormone impazzito e troppo alcol nel sangue, finiscono a fare sesso di gruppo e questa ragazza viene picchiata e brutalmente uccisa, poi si disfano del cadavere. Magari a quel punto avranno detto a Derek di scappare, che loro si sarebbero occupati del resto. Anche perché io mi chiedo se sia davvero possibile ammazzare qualcuno nel pieno della notte senza che gli altri coinquilini sentano nulla”.
Così hai perso il sonno per settimane su questa cosa.
“Ma diciamo pure per anni, se leggi gli atti giudiziari è incredibile. Qualcuno ha detto che nemmeno Ted Bundy, che ne ha uccise non so quante, ha mantenuto la sua tesi d’innocenza fino al lettino dell’iniezione. Il giorno prima della morte però, parlando con un’amica, Ted Bundy ha confessato. Uno come Derek Rocco Barnabei invece, che dal primo secondo si è processato innocente e non ha mai cambiato opinione fino all’ultimo istante, forse ha una storia diversa”.
Magari non l’ha uccisa fisicamente ma era lì mentre lei moriva.
“Esatto, oppure è andato davvero via per un paio d’ore e quando è tornato l’avevano uccisa, però quando hanno deciso di farla sparire non ha avuto la forza di opporsi. Però ecco, ho il timore che ci siano altre persone coinvolte - che ho provato a contattare e che non hanno mai voluto rispondere - specialmente Michael Bain. Ho trovato anche il suo numero di casa, ma mi sono chiesto se fosse giusto da parte mia chiamarlo. È sposato, ha tre figli, e magari la moglie non sa nulla di questa storia. E chi sono io per dirgli che Barnabei l’ha accusato di omicidio”.
La pandemia ha riportato il tema della morte nelle nostre vite. Dalla terapia intensiva alla salvaguardia degli anziani, senza scordare l’immunità di gregge ed i vaccini.
“Paradossalmente siamo in un’epoca in cui rifiutiamo il rischio di morire, rifiutiamo il concetto che una cosa possa andare male. Non accettiamo più la morte, conviviamo con la sua paura ma finché è distante da noi siamo portati ad esorcizzarla. Questa storia dei vaccini è emblematica. Uno oggi mi ha scritto: piuttosto che vaccinarmi preferisco rischiare di beccarmi il covid. È l’era della paura”.
Non c’è più la cultura della morte, della sua accettazione.
“No infatti. Se abbiamo 98 anni, vogliamo arrivare a 99. Lo dico con rispetto nei confronti della vita. L’altro giorno mi ha chiamato un ascoltatore dicendo: ‘mio suocero ha 106 anni, è in una RSA e nell’ultimo anno non ha potuto vedere nessuno’. E tu ti dici cavolo, con rispetto profondo, ma quest’uomo la sua vita l’ha fatta. Nessuno vuole uccidere e nessuno è contento quando ci lasciano i nostri cari, ma c’è questa idea che la vita biologica debba andare avanti all’infinito.
Un diritto acquisito.
“Alla vita biologica però. Perché la vita, come mi ha detto Silvio Garattini, è una cosa diversa. Siamo il paese con una vita biologica lunghissima, ma il livello di qualità della vita sopra i 70 anni è tra i peggiori. Quindi sai, tutti vogliono vivere un anno in più anche quando sono cronicizzati, non si muovono, cardiopatici, con l’ossigeno… devono stare attaccati alla vita”.
Un lusso che Derek Rocco Barnabei, nonostante tutto, non si è potuto permettere. Colpevole o meno, Derek non ha avuto il diritto di andarsene per cause naturali. Lo aveva sperato, aggiungendo una casella inesistente al questionario sottoposto ai condannati a morte in Virginia. Le opzioni tra cui scegliere erano soltanto due: la sedia elettrica o l'iniezione letale.