Quello che mi accingo a fare è qualcosa di difficile. Perché si muove sul crinale dell’indicibile, oggi come oggi. Ma devo farlo, quindi non esiterò oltre. Quando ho letto il comunicato che lanciava il nuovo album di Paolo Benvegnù, titolo “È inutile parlare d’amore”, ci sono rimasto male. Perché, questo ho letto, questo diceva il comunicato, l’album esce in due tranche, ma non nel senso che ne esce una parte il 12 gennaio 2024, e una parte il 19 gennaio 2024, scelta che sarebbe stata quantomeno bizzarra, ma comprensibile in un’era di bombardamento di notizie, dove anche chi è portatore sano di bellezza è in qualche modo costretto a fare qualcosa di eclatante per farsi notare, per dirla con una mia amica, il passaggio tra amore platonico ad amore plateale lì, a un tiro di schioppo, quanto piuttosto il 12 gennaio 2024 in streaming e poi dopo una settimana, il 19 gennaio 2024 in fisico, cioè cd e vinile. Da imperituro e luddista antagonista delle piattaforme di streaming ho letto, sulle prime, il tutto come una sorta di tradimento, un aver chinato il coppino di fronte a un nemico implacabile. Avessi avuto il tempo e il modo di ragionarci su, cioè avessi messo del tempo tra la lettura di quel comunicato e l’ascolto delle dodici tracce dell’album in questione, avrei anche potuto pensare che di reale inchino al mercato si sarebbe potuto trattare, anche se quel nome, Paolo Benvegnù, avrebbe dovuto indurmi a mordermi la lingua da solo, il sapore ferroso del sangue a riempirmi la bocca. Invece ho lanciato l’ascolto, e già a partire dalle prime note, pianistiche e in mid-tempo, della prima traccia, cinque minuti e cinquantaquattro secondi di puro Paolo Benvegnù sound, ho capito che il nostro, pur in questa modalità contemporanea, aveva optato proprio per una soluzione differente, situazionista, credo. Rovesciando gli stilemi di colei che il mercato se lo è letteralmente mangiato, anzi, di coloro che il mercato se lo sono letteralmente mangiato, negli ultimi anni, cioè prima Adele e poi Taylor Swift, ma non sarei poi così convinto che il nostro le abbia anche mai solo sentite nominare, il cantautore di Salò già un tempo alla guida degli immaginifici Scisma, poi ci torno su, opta per offrire subito il fianco al contemporaneo, e invece di piazzare prima sul mercato i pezzi fisici, impedendo a Spotify e affini di fare il proprio sporco e porco lavoro, chi mi vuole ascoltare deve comprarsi il fisico, fa esattamente il contrario, regalando la propria arte per poi indurre chi se ne fosse innamorato, immagino e spero, per voi, tutti quelli che la incroceranno, a comprarsi il fisico, perché certa musica va ascoltata come Cristo comanda, non certo di corsa e sul cellulare, i cinque minuti e cinquantaquattro secondi dell’introduttiva Tecnica e simbolica stanno appunto lì a dirci questo, quel giro di bassi al pianoforte, La-Do-Si-Re, ipnotico e imperioso, a aprire le danze e lasciare spazio alla melodia tipicamente Benvegnuiana, “tu dimmi come sfamare i cani e dai cani farsi sbranare” a dipingerci di un immaginario vivido come non mai.
Una full immersion nella poetica di un artista che già tanto ha dato alla nostra musica, e che ancora un volta torna a regalarci perle preziose, aperture melodiche davvero aeree, come quelle affidate a Neri Marcorè all’inizio di 27-12, forse la più scismiana, parlo di melodia, attenzione, non di suoni, della covata, sentite il ritornello “mentre tu sei ad un passo da me” e pensate quelle parole cantante da Sara Mazo, poi ditemi se non vi è venuto davvero da piangere, rimpiangendo quanto sarebbe potuto ancora essere e invece non è più. Le voci che si affiancano, si armonizzano come oggi, questo lo direbbe anche Luca Jurman, se non si incistasse così tanto a prendersela coi ragazzi dei talent, non si fa più. E proprio questo mi svela il trucco che Paolo Benvegnù, artista colto, difficile per quel suo non concedersi al “commerciale”, neanche quando si ritrova a duettare con chi, nell’indie, è forse uno dei nomi più mainstream, leggi al nome Brunori Sas, la loro L’oceano è una delle tracce meno ruffiane delle dodici presenti in questo album, una mid-tempo con parole e melodie che si inseguono senza sosta, alla faccia di quanto poi il nostro dichiara alla traccia otto, quando parlando di quel che passa il convento oggi, dice che lui altro non sa fare che scrivere canzoni brutte. Una sorta di uscita fuori porta in un lavoro che è una vera summa di come si dovrebbero scrivere canzoni se si avesse a cuore l’abecedario della composizione, armonia, melodia, dinamica, ritmica, tutto il cucuzzaro. Quindi ho capito che Paolo Benvegnù, abbiate tutti cura di un artista così, ha deciso di infiltrarsi come un virus dentro le piattaforme di streaming con le sue canzoni da ascoltare, canzoni belle, altroché, prima di andare poi a planare dentro lettori cd o piatti con puntine atti a riprodurre i vinili, proprio per far saltare in aria tutto da dentro. O forse, ancora, è voluto entrare con la sua spavalda eterosessualità, in un harem fingendosi donna, al fine di mostrare poi di che materia è fatto, il turgore di una melodia, di più melodie a provare a scardinare una patina di non suoni e non canti che ormai si è spalmata su tutto e tutti, al punto che, per dirla con Raymond Carver, “noi non sapremmo riconoscere l’amore neanche se si alzasse e ce lo mettesse nel culo”. So, lo so perché scrivere è il mio mestiere, come lo è anche per Paolo Benvegnù, io scrivo pezzi, lui scrive canzoni, un pianoforte, qui molto spesso, o una chitarra acustica a fare da base portante delle sue canzoni, che parlare di harem e di turgore sia fastidioso, quasi un riferimento a un machismo che poco si addice a una musica che, praticamente sempre, è in realtà quintessenza di aulica poesia, fisica come la musica suonata sa essere ma al tempo stesso eterea, volatile non nel senso di fatua, ma proprio in quanto in grado di volare, ma è lui, mica io, a aver intitolato l’undicesima traccia L’origine del mondo, come il famoso dipinto di Gustav Courbet, la carne e l’anima sono distinte solo nella visione di chi in fondo in fondo è miope, corpi e sentimenti sono legati a doppio filo dentro i suoi testi come nella vita.
Un modo antico, quello di Benvegnù di scrivere, una matrice così riconoscibile da farci suonare familiari anche tracce nuovissime, quei giri di basso avvolgenti, implacabili, quel modo di cantare su tutte le canzoni, senza lasciare parti alla sola musica, linee melodiche che si prestano sempre a armonizzazioni complesse, generose, provateci voi a scrivere sul medesimo giro almeno tre linee, strofa, bridge e ritornello, quasi senza mai respirare. Mica è un caso che è stato proprio lui, coi suoi Scisma, ve lo avevo promesso, a firmare per una major quando chi faceva una certa musica era categoricamente relegato all’underground, l’aver mandato in soffitta la band di Salò forse la colpa che non riuscirò mai a perdonargli, quando a suo tempo, forse anche dopo una mia lettera d’amore pubblica alla band e in modo particolare alla voce della sua partner musicale di allora, Sara Mazo, tornarono momentaneamente insieme, Mr. Newman il nome dell’EP che aprì a pochissime date live, io li ho visti a Latteria Monloy, nella loro Brescia, quasi ci avevo sperato che sarebbero tornati, ma neve di primavera è stata, un visionario è un visionario anche nell’intuire prima le strade da imboccare, lasciando poi che siano altri a farsele proprie. Il fatto che un lavoro così generosamente propenso all’ascoltatore esca a poche settimane da Mondo e Antimondo di Umberto Maria Giardini, altro grandissimo artista di quella stagione, come Paolo Benvegnù radicale nel mantenersi fedele solo alla propria arte e al proprio pubblico, si fotta il mercato con le sue regolette sceme, si fotta lo streaming, appunto, con i suoi brani tutti uguali di due minuti e quindici, l’autotune a appiattire quelle quattro note che i quattro accordi in croce che quello spazio può occupare riesce a tirare fuori, la monotonia elevata a grado di comandamento da seguire supinamente, ecco, l’idea che due grandi artisti come loro escano con due album così ricchi e così belli nel giro di pochi giorni ben lascerebbe sperare per il futuro, non fosse che è il presente a essere così fosco, figuriamoci quel che ci prospetta il domani. “Tu non sai, non sai niente, hai venduto il talento per sentirti importante. Ma la gente è cattiva, si innamora per niente. Si innamora di un altro, quanto è strana la gente” canta sempre in Tecnica e simbolica Paolo Benvegnù, ecco, l’impressione è che lui il talento se lo sia tenuto cucito addosso e che, di tanto in tanto torna per farcene generoso dono, sempre intriso di quella malinconia che sembra disperata ma poi si apre come le sue melodie verso una ipotesi di futuro, malinconia che è un po’ la sua seconda pelle, quella che gli fa poi cantare “Non esiste domani… restate a terra, c’è un uomo in mare, l’orizzonte è perduto, chi ci viene a salvare?” per poi chiudere con quel “osservate le stelle” che è in fondo la sola possibilità che oggi come oggi sembra plausibile, proprio come quella di ascoltare le sue canzoni in mezzo a questo oceano di merda.