Proseguiamo il viaggio, imprevedibilmente quando la festa è finita. Tiktoker come assurdi mascheroni, anacronistici d’un colpo, stentorei a ricordare un baratro (lo chiamavano lasso, parentesi, stagione persino), l’ora dei serragli imbambolati. Ne siamo fuori? Qualcuno comincia azzardatamente a usare definizioni più severe. Dal Pandoro-gate al sospetto c’è una distanza fragilissima. Adesso tutto sta a convertire il combustibile di fuochi finti. Come se davvero la vanità potesse tradursi in una virtù, un engagement, e l’ironia potesse trovare una degna sostituta nell’antinomica invidia. Voglio dire, l’ironia avrebbe scagionato le varie insulsità, ancheggiamenti, movimenti labiali con sullo sfondo la voce da rapper che oggi (l’ho già scritto) somiglia sempre più al lamento di un muezzin. Su TikTok finiamo su Anna Pepe, autrice di Gasolina. Rapper. Benissimo. Almeno fa qualcosa, osserviamo perfidamente. Di quelle perfidie che sfuggono dal seno come la serpe che provoca il pachiderma della noia. Però canta, fa la rapper. Cantare: hanno eliminato la melodia. Il parlato con un allungamento di sotto-note a metà tra l’ambulante di un suk e il richiamo nostalgico di un muezzin. Benissimo. Quindi? Il video su Tik Tok. Le palpebre sono sbarrate, non dormo, fisso i due.
Ma chi sono? Leggo i commenti. Un tripudio post e preadolescenziale. Una tizia scrive: da grande vorrei essere Anna Pepe. L’altro si chiama Seba. Interessante. Tutto sommato possiamo spostare l’attenzione, tirarci fuori un qualche contenuto, non so una cultura suburbana, raccontata in un pentagramma arido ma funzionale allo scopo; una rivolta, un impegno. L’engagement di cui sopra finalmente al servizio di una idea, non diventerà mai una ideologia, ok, chi se ne importa. Non c’è uno straccio di idea, possiamo stare tranquilli, una poetica, uno slummy di frequentatori con un vessillo, una bandiera da alzare, qualcosa da destrutturare per essere ancora una possibilità, la contrazione barnabyana del: seppur tutti, io no. Non c’è, badate, nemmeno una provocazione. Il velario si abbassa miseramente oggi sullo zucchero rosa di un pandoro. Lasciando il resto della platea ammutolita dalla delusione bigia e distratta; il palco con ancora sparute animelle danzare mentre la sala si svuota piano piano. Resistenza commovente, restare ancora, quando il portiere indica la via, suggerendo: signori, guadagnate l’uscita. I tiktoker. Adesso il loro universo sembra più schizofrenico che mai. Una bolla al culmine, un delirio moltiplicato. Avventori pacifici mentre il resto del pianeta vive un The day after, con parecchie ragioni.
Nel fungo atomico, i tiktoker imperturbabili e svagati continuano a eseguire il meglio che hanno: faccette trasognate, l’orribile manfrina definita lip sync. Che male c’è? Direbbe la signora del piano di fronte. Tutta invidia. Giusto. Perché una coscienza critica da formare è un concetto ameno, seducente non so come la disposizione numerica dell’esercito troiano. Quanto ce ne può fregare da uno a dieci? Coscienza critica. I soliti matusalemme. Ma ché davvero? Ancora cercate esagitazioni post-sessantottine? Per favore. La rapper è la figlia di un dj. Ottimo. Andiamo avanti. Vediamo che fa? Sgrana occhioni scuri da adolescente. Da ventenne, può darsi. Faccio due conti. Nasce nei primi anni Duemila. Oh. Allora c’era ancora la melodia. La vegliarda. La melodia, un retorico giro di note in fondo, tutto molto sentimentale. I rapper erano una diramazione intestina, non piaceva su larga scala. Contenuti da slogan hip hop al massimo. Non esistevano le influencer. Solo letterine, veline con push-up strizzati al centro dello sterno. Una disgrazia per volta.