“Tutta l’arte che si fa capire è arte per deficienti”. Basterebbe questo pensiero tranchant a sintetizzare l’approccio di Antonio Rezza con il lavoro che da più di 30 anni porta avanti in tutto il mondo insieme alla scultrice Flavia Mastrella, in linea con quel che scrisse il poeta Montale: “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Ma siccome abbiamo avuto la possibilità di scambiarci due chiacchiere più approfondite, l’occasione è stata utile per provare a capire cosa significa fare comicità nel 2021. Anche lui è rimasto colpito dalla storia di Nazar Mohammed, in arte Khasha Zwan, il comico ucciso dai talebani che, prima di morire, li ha derisi con l’ultima battuta che lo ha reso immortale. Rispetto agli altri, però, secondo lui “ormai la comicità ha senso proprio in quei paesi dove se manifesti contro il potere vieni ucciso”. Anche perché è convinto che “la satira è sempre serva” e in Italia (come nel resto dell’Occidente) “quando la fai hai le spalle coperte, mentre invece dovrebbe essere qualcosa di infernale, come diceva Antonin Artaud”. Per questo non considera comici come Pio e Amedeo degli innovatori: "Chi rinuncia al cognome per entrare in confidenza con il pubblico dimostra già di fare una buffonata, non una innovazione”.
Rezza è uno dei massimi esponenti del nostro teatro di ricerca. Considerato uno dei maggiori performer in circolazione, attraverso il suo corpo porta in scena rappresentazioni ciniche, dissacratorie, folli, ribelli, travolgenti, il tutto arricchito da una indole anarchica che ha trovato diffusione a teatro, così come al cinema e in letteratura. Tre anni fa, Antonio e Flavia, a coronamento del loro percorso artistico, hanno ricevuto il Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia con le seguenti motivazioni: “Antonio Rezza e Flavia Mastrella, ovvero RezzaMastrella, un combinato artistico inimitabile nel panorama teatrale contemporaneo, sono i Leoni d’oro alla carriera per il Teatro 2018”.
Negli ultimi tempi si è tornati a parlare del ruolo della comicità, soprattutto dopo l’uccisione del comico afghano da parte dei talebani. Anche a te ha colpito quella storia?
Intanto bisogna premettere che satira è sempre serva, perché si schiera dalla parte di qualcuno. Per questo ha senso solo in paesi dove la dittatura non è camuffata come da noi, ma reale. Dove se fai satira ti succede ciò che è accade a quel comico. Lui guardava con sprezzo i suoi giustizieri, mentre da noi, dove c’è una dittatura ripartita, chiunque faccia satira ha le spalle coperte, per cui ha poco senso. Ha quindi ancora un vero significato in quei paesi dove se manifesti contro il potere vieni ucciso. In Italia la vedo come qualcosa al servizio o dell’uno o dell’altro.
Il politicamente corretto influisce su quello che un artista oggi vuole presentare al pubblico?
Io non ho mai tenuto conto di queste cose in vita mia. Con Flavia Mastrella abbiamo sempre fatto quello che volevamo, cioè quello che siamo, tenendo conto di ciò che avevamo intorno. La comicità dev’essere qualcosa di infernale, come sosteneva Antonin Artaud. Non può essere un ammicco. Su questa linea conosco la potenza devastante di Alessandro Bergonzoni o di Franco Maresco che con Ciprì ha fatto film magnifici. Sono quelle le comicità che raggiungono il luciferino.
Ultimamente sono stati premiati i comici Pio e Amedeo al Seat Music Awards su Rai Uno “per aver innovato il linguaggio televisivo e saper cogliere le sfaccettature della vita quotidiana”.
Non so chi siano, ma avranno detto le solite quattro stronzate infarcite di cattiverie. La maggior parte di personaggi simili è spinto da altri, non vale nulla e si attacca alla contingenza. Non li consoco, ma due persone che rinunciano al cognome non possono essere considerate degli innovatori. Io conosco come innovatori Antonin Artaud e Tadeusz Kantor, come lo siamo noi, Antonio Rezza e Flavia Mastrella con nome e cognome. Non credo che chi rinuncia al cognome per entrare in confidenza e familiarità con il pubblico possa innovare, già lì è una buffonata. Come diceva Rino Gaetano in una delle sue illuminazioni bisogna “criticare un film senza prima vederlo”. Non rinuncerei mai al mio cognome. Anzi, proprio perché non li conosco, non possono aver innovato nulla. Che cosa hanno fatto di valido? Chi rinuncia al suo stato di fatto non può essere considerata una persona che innova. Diciamolo chiaro per una volta: bisogna avere il coraggio di sentire la puzza dell’imbroglio senza andare a verificare, perché si perde solo tempo. E li premiano anche? Li fanno illudere, poveracci… come diceva Carmelo Bene: "Il successo senza che nulla sia successo”.
Si paga qualcosa in termini di diffusione o popolarità nel non accettare compromessi?
Se sei forte puoi fare quello che ti pare. Non credo nell’incomprensione. Anzi, non capisco perché uno dovrebbe essere compreso… Io amo le cose che non capisco, come i film di David Lynch o di Andrej Tarkovskij. Tutta l’arte che si fa capire è arte per deficienti. Seguire la propria strada non vuol dire essere compresi, se cerchi la comprensione vuol dire che giochi per una posta più bassa. Noi abbiamo fatto una scelta e viviamo questa scelta con tanto pubblico e critica che ci apprezza, per cui è la scelta migliore. Lavoriamo per un nostro tornaconto personale, non economico ma morale.
Che ruolo hanno la televisione e i social nei confronti del vostro lavoro?
I social sono per me dei giornali di bordo per avvertire di quello che facciamo. Non rispondo mai ai commenti, perché non ho tempo e non credo abbia importanza farlo. I social mi sembrano delle piazze per pettegoli. Spesso siamo entrati in conflitto con chi gestiva le nostre pagine, perché andrebbero gestite in un altro modo, lo capisco. Ma noi lo facciamo come ci pare, la linea estetica dev’essere la nostra. Non li utilizziamo a pieno regime, però è giusto così. Bisogna essere anche discreti a volte, non si può essere sempre ovunque. Mentre in tv, se ci fanno fare quello che vogliamo bene, altrimenti non ce ne frega nulla.
In Italia, però, spesso facciamo fatica a valorizzare l’arte. Emblematico il vostro caso, visto che nella città di Nettuno vi è stato tolto lo spazio che da 35 anni utilizzavate per esprimervi.
Era la mia città, anche se ancora ci abito. Ne parlo al passato perché siamo stati cacciati durante il commissariamento del Comune perché l’edificio è stato considerato inagibile, quando invece è agibile e non si è tenuto conto della controperizia. Ma la cosa più grave di questo sabotaggio è che l’amministrazione che si è insediata regolarmente in seguito non ha fronteggiato il problema e non ci ha offerto un altro posto in cambio per poter lavorare. Per cui, il mio rapporto con la città è definitivamente compromesso. Non farò mai più nulla a Nettuno. Abbiamo avanzato la richiesta di usucapione dei locali che ci spettano, visto che erano 35 anni che lavoravamo lì, e quando vinceremo la causa li doneremo allo Stato grazie a una Fondazione, perché non vogliamo speculare ma lasciare a chi verrà dopo di noi uno spazio per potersi esprimere. È una vergogna che ci abbiano cacciato, è una vergogna che non sia stata riparata l’ingiustizia, ma io continuo a fargliela pagare perché ovunque posso parlare li sputtano.