Questa settimana si è parlato parecchio di un post di Artie 5ive, uno dei rapper italiani più promettenti del momento. Italo-sierralionese classe 2000, il suo vero nome è Ivan Arturo Barioli. In Sierra Leone, il Paese d’origine di sua madre, non è mai stato in vita sua, a causa dell’instabilità politica e della guerra. È nato e cresciuto nel quartiere di Bicocca, a Milano, e non possiamo neanche considerarlo un italiano di seconda generazione (figlio cioè di due immigrati), perché nel suo caso è italiano e basta (ed è cittadino italiano dalla nascita, come normalmente accade se almeno uno dei tuoi genitori è italiano, nel suo caso il padre). Come spesso capita, però, molti non sembrano considerarlo un nostro connazionale a tutti gli effetti, e questo per via della sua afrodiscendenza. Così si è sfogato in una storia su Instagram, diventata in breve virale. Ecco quello che ha scritto, testualmente: “A una buona metà degli italiani non piaccio e non piacerò mai, solo per il colore della mia pelle. Non importa che cosa io dica, alla metà di voi non piacerò comunque. Non importa che sono nato a Milano, per alcuni di voi sarò sempre una scimmia o un negr0 di merd4. Dovrò sempre tornare al ‘mio Paese’. Dopo 24 anni non mi tocca più nulla, mi fate solo ridere, perché ormai non potete più fare nulla se non lamentarvi. Faccio parte del cambiamento, sono l’ultimo ingranaggio che lo completa, i miei figli avranno gli stessi documenti dei vostri, e parleranno la stessa lingua. Ma mi spaventa vedere ragazzi della mia età o più giovani ancora concentrati sulle diversità piuttosto che su cosa ci rende simili, ho sempre cercato di costruire ponti e continuerò a farlo per chi vorrà attraversarli, sbloccate le vostre potenzialità e rilasciate la vostra identità, siate liberi e nella libertà scoprirete l’amore verso il prossimo, ci vogliono separati e divisi perché insieme siamo pericolosi. Io continuerò a dire la mia, sempre più consapevole che sto facendo giusto, le parole di uno ispirano altri, così come io fui ispirato io da chi venne prima di me”.
Molti lo hanno accolto come uno spunto di discussione costruttivo; molti altri fan del rap, però, hanno riempito i social di post polemici o al vetriolo, sostanzialmente accusandolo di “piangersi addosso” o di nascondersi dietro la discriminazione per respingere al mittente critiche sulla sua musica. Il che, ovviamente, fa sorgere una domanda: che il rap italiano abbia un problema di razzismo? La risposta è più complicata di quanto potrebbe sembrare. Per moltissimi anni, infatti, il rap italiano è stato appannaggio dei bianchi, a differenza di quanto succedeva in America e nel resto d’Europa. Evidentemente c’erano già tantissimi ragazzi neri e latini sul nostro territorio, ma c’era una notevole barriera d’ingresso per chi voleva fare rap: produrre e registrare costava ancora caro, e quindi se crescevi in una famiglia di immigrati (o più in generale di poveri) non necessariamente potevi permettertelo. Inoltre, erano ben pochi quelli che riuscivano a mantenersi con il rap: era un sogno, e non tutti possono permettersi di sognare, se sono alle prese con problemi ben più pressanti e quotidiani. Il paradosso, però, è che anche se da noi c’erano meno rapper neri, negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila c’era senz’altro più cultura tra i fan dell’hip hop italiano: sulle radici del movimento, che sono ovviamente afroamericane, e sui suoi valori di base, tra cui il rifiuto di ogni tipo di razzismo, anche implicito. Negli Stati Uniti, ad esempio, è normale che il fan bianco a un concerto di Snoop Dogg eviti di unirsi al pubblico che sta rappando in coro il ritornello di For All my N*ggas and Bitches. È assodato che la cosiddetta n-word, in bocca a un caucasico, è un insulto infamante, in qualsiasi circostanza. Non importa con che intenzione venga pronunciata: ciò che conta è come viene recepita, e quanto dolore ha storicamente provocato. In Italia, invece, il concetto non è ancora passato del tutto, e molti ammiratori dei rapper americani non si pongono neanche il problema di cosa sia giusto dire o fare in determinate circostanze.
Oppure, ancora peggio, se lo pongono solo in relazione a questioni molto lontane; si solidarizza via social con campagne come #BlackLivesMatter, ma nessuno è disposto ad aderire a proteste più vicine ma meno virali, come quella per la morte di Alika Ogorchukwu, nigeriano di trentanove anni pestato a morte con la sua stessa stampella a Civitanova Marche nel 2022, in una strada affollata. La sua colpa? Aveva osato chiedere l’elemosina al suo assassino, un passante incontrato per la prima volta solo qualche minuto prima. C’è perfino chi ascolta rap e simpatizza con le idee di Salvini o Meloni, circostanza incomprensibile ai più; perché se è vero che negli Usa esistono rapper trumpiani, si contano sulle dita di una mano. La situazione italiana, comunque, potrebbe cambiare, se ci fosse una sana presa di consapevolezza da parte di tutti. I fan più giovani hanno le carte in regola per eliminare il problema del razzismo sistemico: sono cresciuti in città sempre più multietniche, hanno condiviso i banchi di scuola con i loro coetanei di seconda generazione, hanno imparato ad amare e rispettare un genere nato orgogliosamente dai neri e per i neri. Ma per farlo dovrebbero approfondire il contesto in cui è nato l’hip hop, comprenderne il senso profondo, e soprattutto fare uno sforzo in più per riconoscere che certi atteggiamenti sono sbagliati a prescindere. Se un artista confida di non sentirsi accettato dai suoi connazionali per via del colore della sua pelle, la risposta non può essere “Il problema non è la tua pelle, ma la tua musica”. Perché se qualcuno segnala che è in atto una discriminazione, il minimo che possiamo fare è ascoltarlo davvero e provare a metterci nei suoi panni.