Il gigante buono della ristorazione italiana compie oggi 46 anni ed è indubbiamente, fra i suoi colleghi pluristellati che da diversi anni frequentano assiduamente il piccolo schermo nazionale, il più amato dagli italiani.
I motivi sono diversi: sin dalla prima inquadratura, per stazza, aspetto e attitudine Cannavacciuolo è immediatamente associabile a uno dei pilastri immarcescibili della cinematografia pop italiana: Bud Spencer. Barba folta e scura, occhio serrato da spaghetti western e un fisico che sembra modellato su quello di un montacarichi industriale, Antonino risulta subito simpatico a chiunque. Non è un caso se, al suo esordio catodico con “Cucine da Incubo” una delle sue signature moves fossero le terribili pacche sulla schiena ai cuochi delle suddette cucine, dispensate con mani pesanti come padelle di ghisa. Mani che però sul tagliere si muovono con millimetrica precisione e una naturale leggiadria ottenibile solo dopo una massacrante pratica pluridecennale in cucina. Aggiungiamoci un pesante accento campano e una sintassi simpaticamente claudicante e il personaggio è servito. Più popolare dell’austero Cracco, che l’iconografia di Masterchef ha trasformato agli occhi degli italiani in un inflessibile carceriere prussiano, più ruspante di Barbieri e più empatico di Locatelli, Cannavacciuolo ha una parabola professionale e artistica che ha in parte le stesse caratteristiche della sua cucina: non è bello ma piace (per usare le parole del grande filosofo contemporaneo Jerry Calà) e la sua è una storia di passione, talento, sacrificio, tradizione e successo meritato.
È l’incarnazione dello stereotipo dell’Italia che ama la cucina, il suo paese d’origine, o' mare o' sole a sfugliatella, abbastanza svecchiato e rielaborato creativamente da piacere ai foodblogger in sneakers Prada ma ancora saldamente assicurato alla tradizione da essere assimilabile per chi considera l’alta cucina creativa intrattenimento per adulti facoltosi e pensa che certi piatti starebbero meglio in museo d’arte contemporanea che non al tavolo di un ristorante. La disciplina, il sacrificio e un innegabile talento sono gli ingredienti della ricetta di Cannavacciuolo che lo hanno portato a ottenere un palmares di quattro stelle Michelin (due nel suo flagship restaurant Villa Crespi e due nei suoi Bistrot a Torino e Novara) e ad essere a capo di un’azienda che fattura svariati milioni di euro all’anno. Fedele alla propria estetica che mette al centro i valori tradizionali della famiglia, della tradizione, dell’eccellenza e del ritorno alle origini, Antonino ha da poco annunciato l’imminente apertura di un nuovo ristorante a Ticciano, frazione di poche anime in provincia di Vico Equense alle propaggini del parco dei Monti Lattari, il primo nella sua terra natale. È un omaggio al papà Andrea, una promessa mantenuta. La location è una casa padronale della fine dell’800 che Cannavacciuolo aveva comprato per sé nel 1995. È una bella storia no?
Io e Antonino abbiamo la stessa età, siamo nati nel 1975. Ma mentre io, a 13 anni, giocavo ancora con le Hot Wheels e i GI Joe nella periferia di Milano e guardavo le televendite di Telemarket, Cannavacciuolo si faceva le ossa nella sua personalissima Tana delle Tigri, l’istituto alberghiero I.S.I.S. F. De Gennaro della propria città, Vico Equense, dove il padre ha insegnato per 27 anni. E non parliamo di un padre qualunque. Andrea Cannavacciuolo ha affiancato all’insegnamento l’attività di capo cuoco presso l’esclusivo ristorante del Grand Hotel La Sonrisa, che gli amanti della televisione folk enogastronomica ricorderanno come la leggendaria location nemica del minimalismo de “IL BOSS DELLE CERIMONIE” su Real Time. Proprio nelle sue cucine young Antonino trascorre interminabili giornate disossando prosciutti da 30 kg e pelando piantagioni patate mentre i suoi coetanei giocano a calcetto o ammirano i culi delle ragazze sul litorale sorrentino. Cannavacciuolo senior nelle parole del figlio è un “è un cuoco e scultore. Scava le zucche, modella il burro e la margarina, scolpisce il legno, ma anche il ghiaccio”. Chi scrive gli ha visto scolpire un gigantesco cigno di margarina in una manciata di minuti. Non stupisce quindi che il figliol prodigo abbia sviluppato una manualità in cucina degna di Peter Carl Fabergè (il gioielliere russo autore delle famigerate uova destinate allo Zar). Nel programma al quale lavoro, Antonino Chef Academy, Cannavacciuolo (coadiuvato dal suo fedelissimo secondo Simone Corbo), in ogni puntata cucina estensivamente piatti anche complicatissimi con la stessa dimestichezza con cui io metto una sottiletta sul pan carrè. Proprio l’altro ieri, notando che guardavo il mignolo della sua mano piegato in modo strano, Antonino ha voltato la sua testa (grande come il televisore 15 pollici che avevo in cameretta da ragazzino) e mi ha detto: “me lo sono rotto il giorno prima di aprire a Villa Crespi. Me lo hanno steccato e sono andato al lavoro. Per questo è rimasto così. Se mi fossi fatto ingessare ora sarebbe normale ma sarebbe anche passato un mese, non avrei aperto, forse sarei andato a lavorare in qualche altro ristorante, chi lo sa. Ma mi hanno insegnato la disciplina, la dedizione al lavoro. E questo ho fatto”.