Quando mi capita (e mi succede sempre più di frequente) di fare ascoltare uno o più brani di Caterina Dufì (in arte Vipera, e così la chiamerò da adesso in poi), ed in specie del suo album “Acerbo e divorato” (ma si ascolti anche la vertiginosa “Trafitto”, almeno) mi si replica, quasi automaticamente, tirando in ballo Daniela Pes. Mi sembra che sia un grosso errore, ma comprensibile: entrambe usano l’elettronica, entrambe non dicono ma evocano. Solo che Daniela Pes usa un linguaggio “inventato”, mentre Vipera sottolinea con vibrazioni elettroniche e suggestioni rumoristiche armoniche (alla Theo Teardo, per dire, o al suo sodale Blixa e ancora indietro nel tempo con i Clock DVA, ancora: per dire, o certe sghembe ballate di loro maestà Throbbling Gristle). Pure, Vipera si apre anche a quasi colloquiali ballate dal gusto vagamente, oniricamente sudamericane (vedi “Sogno steso al sole”).

Il fatto è che ciò che la sostiene, e rende attualmente unica nel panorama della musica italiana, è lo straordinario talento poetico di questa già concreta promessa della nostra musica. Gustate le sue parole, guardatele da tutti i punti di vista che lei stessa ci propone. E se esiste, oggi, una canzone d’autore (a parte i nomi già ultraconsolidati, alla Baustelle) emergente su tutte le altre, è quella di Caterina Dufì. O meglio: Vipera. Orfica e surreale, ogni brano di “Acerbo e divorato” è un distillato lirico metafisico, da ascoltare e riascoltare. Come diceva Cristina Campo (passando da Ezra Pound): “La poesia accade quando ogni parola scritta ha il massimo valore, il massimo del peso”. Questo veniva proclamato cinquant’anni fa. Questo oggi Vipera mette in pratica.
