“L’han deciso i ricchioni, e io devo accettarlo.” Partiamo da qui. Da un verso scritto e cantato da Elio e le Storie Tese, anno del Signore 2003, diciannove anni fa, circa. Titolo della canzone, La follia della donna, album Cicciput, quella di Shpalmen, il supereroe che spalmava merda in faccia ai cattivi. Ecco, la canzone La follia delle donne parlava di tutta una serie di comportamenti ritenuti dal protagonista della canzone, o dalla voce narrante della canzone, nel mondo della narrativa è più semplice questo tipo di classificazione, vedremo a breve che nella canzone è un filo più complicato, comportamenti del donne evocate nel titolo, dal comprarsi scarpe costosissime o vestiti di colori imposti dalle donne, e qui veniamo all’incipit di questo articolo, mode decise a tavolino da “un cartello di ricchioni”, al farsi tatuaggi sempre più grossi, frutti, diceva sempre Elio o chi per lui, al disagio mentale. Sessismo, omofobia, addirittura discriminazione nei confronti dei malati di mente, se uno prendesse alla lettera questa canzone finirebbe in un girone apposito dell’inferno dantesco a cui ancora, temo, nessuno ha dato un titolo e quindi una punizione esemplare, quella di chi è politicamente scorretto.
O meglio, di chi lo è stato in un’epoca in cui magari ancora essere politicamente scorretti era possibile, non ovunque ma ancora possibile, bastava rendere esplicita la propria cifra. Cifra che, nel caso di Elio e Le Storie Tese, era evidentemente quella dell’ironia, sentitevi quel capolavoro di Servi della gleba, per dire, o Essere donna oggi (con qui versi, “al grido di cazzo subito”, che oggi varrebbero alla band milanese una denuncia al tribunale di Torquemada) per credere. Ma si poteva anche non essere ironici, un tempo, si poteva cantare roba come “ti raserà l’aiuola quando ritorni da scuola”, Gianluca Grignani o chi per lui dixit, dove l’aiuola sarebbero i peli pubici, e dove il riferimento alla scuola potrebbe indurre l’ascoltatore a pensare che Gianluca Grignani o chi per lui se la intendesse con una giovanissima. Come giovanissima era la ragazzina che si toccava alla fine di Albachiara, canzone principe del repertorio di Vasco Rossi, Vasco Rossi che di canzoni a grande rischio censura ne ha parecchie, su tutte Colpa d’Alfredo, che inanella un negro, una troia, una stronza, il fatto che la tipa fosse accalappiabile solo con l’esibire la macchina giusta, l’idea di uccidere Alfredo e chi più ne ha più ne metta (io ci mettere la quindicenne di Gabry, un po’ pochini per una storia di sesso scritta da un quarantenne, allora). E l’elenco potrebbe davvero farsi infinito, dal nano perculato con violenza da De Andrè in Un giudice, quello col cuore troppo vicino al buco del culo, agli Afterhours di Manuel Agnelli e la loro Lasciami leccare l’adrenalina, che comincia con questa iconica strofa “Forse non è proprio legale sai, ma sei bella coperta di lividi”, e no, Manuel, non è affatto legale. Tutta roba scritta in passato, e quindi da leggere con gli occhi del passato, con discernimento, e tenendo conto di quando sono state composte e cantate, senza voler fare né revisionismo storico né cancel culture, una cretinata dei tempi d’oggi. E dire che basterebbe concentrarsi su canzoni appunto oggi scritte, non fosse che le canzoni di oggi non hanno testi oggetto di attenzione, stanno lì, confusi nel gracchiare degli smartphone, parole buttate a caso e inascoltate per quel che sono.
A lato il discorso dei discorsi, l’idea che ogni singola parola cantata in una canzone venga automaticamente riportata al sentire o pensare di chi la interpreta uccide in un sol colpo la possibilità di interpretare canzoni che presentino il punto di vista altro, quello di un’altra persona, esistente, o anche solo il punto di vista generale di qualcun altro, chiunque esso sia. Per dire, potrei decidere di cantare una canzone il cui protagonista, che parla in prima persona, è un razzista, andando quindi a dire cose razzista, stilisticamente trovando un modo per far capire ciò, o potrei, uomo, cantare una canzone che mostra il punto di vista di una donna, o altro, il Postino di Renzo Rubino era una canzone d’amore omosessuale scritta da un cantautore etero, non è che le cose vadano per forza riportate all’autobiografismo. Per non dire dell’autofiction, di quando cioè un artista decide di usare se stesso come protagonista di una storia, senza che questa sia necessariamente autobiografica, immagino che questo per un analfabeta funzionale sia davvero chiedere troppo. Non è che Claudio Baglioni abbia passato tutti gli anni Settanta e Ottanta a ricevere due di picche da donne diverse, scriveva canzoni d’amore tendenzialmente tristi perché inscenavano storie andate a male, ma era appunto una scelta poetica, parlava di storie di altri, o forse semplicemente inventate.
Dico tutto questo perché Francesco Baccini ha subito un piccolo processo in quel di Sondrio, quando dopo aver introdotto la sua Le donne di Modena con una battuta, “oggi una canzone del genere verrebbe tacciata di sessismo”, è stato aggredito verbalmente da una spettatrice che, invitata a salire sul palco, ha eretto un muro retorico a base di “il testo di questa canzone mi offende”, senza provare a instaurare un dialogo. Dialogo che avrebbe sicuramente portato a più miti consigli, quella è una canzone dichiaratamente ironica nella quale il protagonista parla di donne che cucinano e stirano, donne di tutte le parti d’Italia, e finisce a cucinare e stirare da solo nel ritornello finale, un galletto che non è in grado di fare il galletto, in pratica. Vedi a provare a analizzare quel che vuoi criticare? Si finisce per rimanere con le matite spuntate, o per farci su una risata, che è quello cui l’ironia ambisce, stigmatizzare qualcosa facendo ridere. Non oso pensare, per dirla con parole dello stesso Baccini, cosa la ragazza di Sondrio avrebbe potuto pensare se avesse intonato invece che Le donne di Modena, Berenice, canzone che inscenava una storia d’amore tra il protagonista, un protagonista, non lui, e una bambola gonfiabile, roba da rovesciare gli occhi all’indietro come Linda Blair in L’Esorcista e cominciare a schiumare, come neanche il Ruggeri che negli anni Ottanta inneggiava al catcalling in Quello che le donne non dicono, povera ingenua di una Fiorella Mannoia incapace di capire che i complimenti del playboy altro non sono che un sintomo di estremo patriarcato. Povera patria, verrebbe da chiosare, non fosse che anche Battiato, con i versi di Inneres Auge non ce la raccontava giusta, lì a cantare di “belle ragazze” equiparate a “extra” per i politici e primari criticati nella canzone. Allora limitiamoci a dire qualcosa di neutrale, che so?, una risata ci seppellirà, nella speranza che non ci siano necrofili pronti a salire sul palco metaforico dei social e a criticarci perché sui morti non si deve e non si può scherzare.