Una volta i moralisti sventolavano il crocifisso. Oggi sventolano uno smartphone. Hanno sostituito il rosario con i commenti indignati su Instagram, e la penitenza con la cancel culture. In teoria siamo più liberi. In pratica, ci censuriamo più noi oggi che una signora di provincia negli anni Cinquanta. Con una differenza: lei almeno non fingeva di essere progressista. Il nuovo moralismo è digitale, fluido, trasversale. Indossa sorrisi gentili, ma ti fa camminare sulle uova ogni volta che apri bocca, scrivi un post o osi formulare un pensiero che esca dal recinto del “socialmente accettabile”. Il dissenso è permesso solo se ha un packaging rassicurante. L’ironia? Sta diventando un peccato capitale. Siamo passati dalla vergogna del corpo a quella delle parole. Il nuovo peccato non è più mostrare un ginocchio, ma dire una frase fuori registro. Basta un lapsus, un tono, una battuta non allineata, e scatta la scomunica. E poco importa se sei in buona fede. Oggi il problema non è cosa dici, ma come viene interpretato.

Prendi Paola Cortellesi. Il suo film C’è ancora domani è stato accolto come un inno femminista. Ma quando ha detto che “non è un film militante”, apriti cielo. Come osi non definirti attivista? L’attivismo, oggi, non è una scelta. È un obbligo. Come lo era la castità, una volta. Devi avere un’etichetta, devi prendere posizione. Altrimenti sei il nemico. E Chiara Ferragni? Il Pandoro-gate è stato più di un inciampo mediatico: è stata una crocifissione pubblica. Dall’idolatria alla lapidazione in pochi secondi. Nessuna possibilità di redenzione. Come nei tribunali morali dell’Ottocento: una volta persa la reputazione, sei fuori dal tempio. Oppure Michela Murgia. In vita divideva, da morta è diventata santa. Ma guai a proporre una lettura sfumata delle sue idee: ti becchi la gogna, pure postuma. La nuova fede si chiama ideologia, e la blasfemia è pensare in modo diverso. Non serve offendere: basta essere dissonanti. Tutto questo accade mentre proclamiamo di volere più inclusione, più ascolto, più dialogo. Ma stiamo costruendo un mondo dove parlare fa paura, dove ogni conversazione è un campo minato. Abbiamo confuso la libertà di parola con il diritto di insulto, e la dialettica con il linciaggio. Non si discute più: si condanna. Le piattaforme digitali sono i nuovi confessori. Instagram ti silenzia se parli di corpi veri, TikTok penalizza i contenuti troppo “sensibili”, LinkedIn ti ammonisce se sei troppo provocatorio. E nel frattempo, i contenuti veramente violenti, razzisti o misogini passano. Non è etica. È algoritmo. È vetrina. È marketing. Abbiamo rotto tanti tabù e va bene. Ma ne abbiamo creati di nuovi: invisibili, viscidi, subdoli. E forse più pericolosi. Perché i vecchi moralisti almeno ci mettevano la faccia. Quelli di oggi giudicano in nome di battaglie che meritano rispetto, ma che usano come scudo e non come ponte, pronti a giudicare chiunque non segua il nuovo vangelo. Forse quello di cui abbiamo davvero bisogno è una libertà vera. Sporca. Contraddittoria. Umana. Una libertà che non ha paura di essere fraintesa, che accetta di essere scomoda. Una libertà che fa nascere conversazioni, invece di chiuderle.

Perché se oggi tutto è potenzialmente offensivo, allora il vero scandalo è dire qualcosa che abbia ancora un senso. Siamo diventati iperattenti, iperfiltrati, ipermorali. Ma non più etici. Il confine tra rispetto e conformismo si è assottigliato fino a scomparire. Non cerchiamo più il confronto, ma il compiacimento. Non vogliamo capire: vogliamo vincere. È la nuova liturgia: o stai con me, o contro di me. Tertium non datur (tradotto: “Una terza cosa non è data”). Così anche il pensiero si è fatto prudente. L’ironia, pericolosa. Il linguaggio, sterile. Parliamo con lo scotch sulla bocca, stando attenti a ogni parola, ogni emoji, ogni hashtag. Un’ansia da prestazione semantica che ha più a che fare con l’obbedienza che con l’empatia. Ci stiamo disabituando alla complessità. All’ambiguità. Alla possibilità che qualcuno dica qualcosa di diverso da noi senza per questo essere un mostro. E nella paura di ferire, stiamo perdendo la capacità di dire qualcosa che valga davvero la pena ascoltare. Oggi, il gesto più rivoluzionario non è provocare. È pensare. E avere ancora il coraggio di dirlo. Ad alta voce.
