Gira parecchio, in queste ore, lo screenshot del titolo di un articolo che sottolinea come dietro il brano Black Nirvana di Elodie ci siano addirittura quattordici mani. Lo abbiamo raccontato già, le quattordici mani in questione sono, oltre a quelle della stessa Elodie, firmataria d’obbligo del brano che è andata a interpretare, quella di coloro che, si suppone abbiano scritto la parte portante del pezzo, cioè Jacopo Ettore e Federica Abbate, e siamo a sei mani, cui vanno aggiunte le otto mani di coloro che hanno prodotto il brano, sotto il marchio Itaca, cioè Merk e Tremont, al secolo Federico Mercuri e Giordano Cremona, il figlio del Mago Oronzo, e i loro soci Eugenio Maimone e Giovanni Grillotti, e siamo a quota quattordici, in effetti. Roba che ha fatto da una parte sbellicare i puristi della musica d’autore, dove sono i Gino Paoli di una volta, i Fabrizio De Andrè, i Lucio Battisti, e poco conta che almeno questi ultimi due abbiano co-firmato l’uno buona parte del suo repertorio con svariati artisti, da Francesco De Gregori fino a Ivano Fossati, con in mezzo i vari Massimo Bubola o Mauro Pagani, l’altro tutte le sue canzoni, la più parte con Mogol, per poi passare a Pasquale Panella, via sua moglie Velezia, Grazia Letizia Veronese. Dall’altra fatto allarmare i passatisti, quelli che amavano la musica di quando la si faceva suonando, non lavorando sui beat, e che faticano a capire come sia possibile scrivere musica tanto banale in così tanti, il meme migliore quello che recita “Dante ha scritto la Divina Commedia da solo”, come dire, per questa roba ci voleva tutta ‘sta gente? Ora, proviamo a essere pragmatici, andando prima a guardare la contemporaneità con lo sguardo dell’entomologo, poi con quello del politologo, un Noam Chomsky che guarda alla musica invece che alla linguistica.
Oggi la musica funziona così, viene ascoltata prevalentemente in streaming, e dello streaming ha finito per prendere forma. Quindi se oggi va quella roba lì, con quei Bpm fissi, quelle melodiette manco troppo arzigogolate, perché le frequenze a disposizione sono quelle di mezzo, quindi i giri armonici e le melodie limitate, allora è su quell’onda che procede la composizione. La melodia conta meno del ritmo? Allora partiamo dal ritmo, nello specifico da un beat. Un beat magari già testato, che funziona, quindi lo si prende e modifica appena, lasciando quel retrogusto di già sentito, di familiare. Su quello, composto dai producer, lavorano i compositori, chi a definire le strofe, chi il ritornello. Un tempo li avrebbero chiamati melodisti. Una volta definito tutto questo si aggiustano i suoni, e in questo rientrano in scena i producer, e qualcuno pensa al testo. A volte i testi sono scritti a pezzi, nel senso che chi lavora alla strofa scrive la strofa, chi lavora al ritornello scrive il ritornello. Se pensate a una qualsiasi canzone rap, di quelle che girano da tempo, ma magari anche ai reggaeton estivi, alla Boomdabash, featuring Alessandra Amoroso o chi per lei, è molto probabile che a aver scritto il ritornello sarà stata Federica Abbate con Cheope, o magari Davide Petrella, o appunto Jacopo Ettore, in realtà più bravo con le strofe. Uno dirà, ok, tanta gente per una canzone comunque dimenticabile, perché Black Nirvana, come buona parte delle canzoni che girano oggi, ha la data di scadenza sul retro, si poggia molto su quanto diventi virale sui social, complice l’estetica aggressiva e sensuale di Elodie, si basa sul video che la accompagna, le performance tipo quella in piazza San Babila a mollo nella fontana, ne valeva la pena? Evidentemente no, da un punto di vista artistico, perché essere uno dei sette autori di una canzone non destinata a rimanere non è esattamente un biglietto da visita di quelli che poi lo incornici e lo metti nel tuo studio, e qui stiamo per scivolare dalla pragmatica all’analisi politica dell’oggi, attenzione, ancora un passettino e ci arriviamo.
Firmare in sette un brano prescindibile di suo non varrebbe la pena, perché è vero che Spadino Selvaggi ha vinto il Mondiali di calcio di Spagna 1982, ma sfido io a essere entrato nella leggenda. Diversa è la questione economica, anche se pure qui ci sarebbe da aprire più di una parentesi. Lo streaming è una bolla, è noto. Fimi e compagnia cantante stan lì a brindare e gioire, ma è un fuoco fatuo, numeri dopati, al limite ci sta guadagnando qualcosa Spotify, che è pur sempre costantemente in rosso, forse le discografiche. Sicuramente non gli artisti, men che meno gli autori. I diritti d’autore esistono ancora, certo, ma lo streaming non paga a sufficienza, e comunque dividersi i bruscolini in sette non basta. Solo che, e arriviamo a Noam Chomsky, se l’alternativa tra non mangiare niente, morendo di fame, è dividersi un tozzo di pane in sette, morendo comunque di stenti, ma qualche giorno dopo, ecco che la discografia contemporanea si tramuta all’istante in una di quelle Comuni che tanto animava gli anarchici di fine Ottocento. Abbiamo solo due pani e tre pesci, bene, visto che non c’è un Gesù disposto a moltiplicarli, almeno ce li dividiamo tutti, anche quello del gruppo che dovesse aver messo letteralmente solo le virgole tra una frase e l’altra del testo. Un po’ come usava in certe band, del passato, dove a scrivere, magari era una volta il chitarrista, una volta il bassista, i testi sempre del cantante, ma a firmarle erano sempre tutti i membri, democraticamente, così che tutti avessero a avvantaggiarsi del successo del gruppo, I R.E.M., in questo, sono emblematici, assai più di quanto non lo siano o non lo siano state altre band, dove a guadagnare sulle canzoni era sempre e solo chi le ha effettivamente scritte. Oggi, quindi, guadagna chi ha scritto, certo, ma anche chi ha arrangiato, questo in fondo è il lavoro dei producer, solo che chiamarli producer invece che arrangiatori suona decisamente più cool. E firma anche chi la canta, perché anche se non ha aggiunto altro che la sua interpretazione, visto che Spotify non paga nulla almeno da qualche parte qualche soldo rientra, democrazia per democrazia. Quindi, per dirla tutta, quanti stanno lì a beffeggiare l’idiozia di scrivere una canzone a quattordici mani, senza che la canzone in questione sia Sowing the seeds of love dei Tears for Fears, per altro firmata solo da quel genio di Roland Orzabal (uno che evidentemente non amava dividere i diritti d’autore col compare Curt Smith), complessa e bellissima, beh, sappia che nei fatti si trova a beffeggiare un vano tentativo di essere solidali tra nuovi impoveriti, facendo propria quella leggenda metropolitana che risponde al detto popolare “dove si mangia in quattro si può mangiare anche in cinque”, detto popolare coniato da un single che non ha mai diviso il pane con nessuno, parola di un padre di famiglia con quattro figli in casa. Viva la solidarietà, anche quella che nasce da canzoni non indimenticabili.