Da diversi giorni si leggono un po’ dappertutto le dichiarazioni che Bono Vox ha rilasciato ad un podcast di nome Awards Chatter. Il cantante degli U2 ha raccontato che odia il nome della band e che molte sue canzoni lo mettono in imbarazzo (ha usato proprio l’espressione “cringe”). Il belante popolino del web ha colto la palla al balzo per fare facile ironia sulla scia di “ah bastava chiederlo a noi, ah-ah”. Tralasciando la povertà di pensiero dei detrattori degli U2, che da anni nella stragrande maggioranza dei casi vanno dietro al sentito dire e non hanno idea dell’impatto che hanno avuto opere come Boy, The Joshua Tree, Achtung Baby o lo ZooTV Tour in tutto ciò che è successo nella musica mondiale dagli anni novanta in poi, questa storia non ci dice proprio nulla su Bono ma ci dice tanto della pochezza del giornalismo musicale nostrano. Ora, facciamo un piccolo passo indietro.
“Io odio il nome U2”, “la mia voce mi mette in imbarazzo”, “Non riesco a riascoltare le nostre vecchie canzoni”: queste affermazioni spuntano da almeno vent’anni nelle interviste a Bono, di solito in quelle che affrontano in modo dettagliato il processo creativo. Del suo rapporto con l’opera del gruppo Bono parla diffusamente anche nella monumentale autobiografia del 2005 U2 by U2. Piuttosto incomprensibile dunque che la riproposizione di dichiarazioni così datate crei un clamore che prima di questo momento non avevano mai ottenuto. Il problema è che quando Bono parla la gente (di oggi) non lo capisce. Perché è una delle poche (se non pochissime) rockstar di caratura internazionale a pensare, muoversi e comunicare sostanzialmente come un intellettuale o come un performer teatrale più che come un musicista. È nell’universo dei Bowie, i Dylan, i Cohen, gli Stipe, i Lennon, i Byrne, i Reed. Questi artisti sono creature oscure di fronte all’idiozia del popolo algoritmico, quello che rifiuta la complessità e applaude il sensazionalismo.
Senza entrare troppo nel dettaglio, le dichiarazioni di Bono sulle sue canzoni non sono punti di vista propriamente di sostanza, quanto di forma. Fin dal 1984, la sua visione come artista parte sempre dal presupposto di fare a pezzi la propria retrospettiva e le conclusioni alle quali giunge per esprimere giudizi su di sé sono spesso dettate da percorsi prettamente intellettuali e non emotivi. Nel podcast Bono ha aperto un varco sul proprio atavico senso di inadeguatezza un po’ come fece Mick Jagger a metà Novanta, quando in una lunga intervista a Jann S. Wenner disse qualcosa di simile su diversi pezzi celebri degli Stones, su tutti Street Fighting Man; per non parlare di come Lennon massacrò l’opera dei Beatles poco prima della sua fine prematura. Capire con chiarezza le dichiarazioni di questi artisti significa fare un viaggio culturale nella vastità dei loro riferimenti: qualcosa di più elaborato di robetta da gossip. Per capire il sistema-Bono, c’è un capitolo emblematico in “Gli U2 fino alla fine del mondo” (uno dei libri capolavoro sul mondo del rock, scritto da Bill Flanagan nel 1996), in cui Bono e lo stesso Flanagan discutono del valore autoriale di Neil Diamond, artista non spesso inserito tra i più significativi. Il cantante degli U2, convinto che Diamond sia uno dei più grandi di sempre, non vede l’ora di dimostrarlo mentre Flanagan è molto scettico a riguardo. Parte una epica sfida dialettica argomentativa tra i due, durante la quale vengono chiamati in causa la cultura ebraica all’interno del tessuto sociale americano, il libro dell’Esodo, la grande letteratura del Novecento. Quello che emerge dall’episodio è che la riflessione sul senso è sempre stata l’ossessione principale del cantante irlandese, soprattutto al di là di quello che può essere ovvio.
L’intervista che ha infiammato gli animi degli scimpanzé digitali contiene un passaggio clamoroso, che ovviamente in pochissimi hanno messo in risalto perché in pochissimi ne hanno capito il senso: “Penso che gli U2 remino molto verso questo sentimento (l’imbarazzo). Forse questo è il posto dove stare come artista, proprio al limite del tuo livello di imbarazzo”. Questa è una tipica uscita del Bono migliore. L’imbarazzo inteso come una forma all’eccesso di sé stessi: un punto di forza, non un punto di debolezza. Esiste forse un modo più efficace per definire l’arte? Un modo più efficace per cogliere la bellezza e la complessità di un percorso lenitivo fino all’accettazione della debolezza? L’arte degli ultimi, l’arte dei dimenticati, dei disperati. Di chi si sente accantonato dalla vita. Dove hai più paura di te, dove temi di più il giudizio degli altri e di te stesso: ecco dove vale la pena di arrivare. Quando Bono parla di “imbarazzo" le sfumature si sommano nella loro complessità: no, non ha mai detto che “non gli piacciono le canzoni degli U2”. Ha alzato il sipario, con consueta raffinatezza, sul complesso gioco di incastri tra l’artista e l’opera. Un’occhiata sul mistero della creatività. L’unico errore di Bono è stato di sopravvalutare l’intelligenza della platea. Perlomeno da questa parte dell’Europa.
Proviamo dunque a sguazzare allegramente nel disastro mediatico del bel paese. Da un lato un artista che parla di arte, tirando in ballo il concetto di imbarazzo. Dall’altro ci sommerge l’imbarazzo, reale, che dovrebbero provare i giornalisti, musicali e non, per la loro insopportabile pochezza. Alcuni titoli ridicolmente offensivi per l’intelligenza si sono susseguiti senza soluzione di continuità: “Bono sconvolge i fan”, “Le rivelazioni choc”, “Bono boccia gli U2”, “Bono in piena crisi artistica”. Un desolante deserto di dilettantismo. Una caterva di analfabeti funzionali. Una sequela di cazzoni. Qualcuno si è sentito di rispondere addirittura nel merito, con articoli dettagliati su perché Bono stesse sbagliando bersagli. “Queste sono le tue vere canzoni imbarazzanti caro Bono” scrive un nostalgico di bei vecchi tempi andati perfino con piglio paternalistico. E una domanda strabiliante si fa largo nello schifo socialnetworkico: le persone che commentano le parole che circolano nell’etere dei nostri tempi incerti, sanno pensare? A questo giro l’emblema del dilemma è Gino Castaldo, classe 1950, una vita spesa a scrivere lo stesso libro sui Beatles, incollato con super attak all’uranio sullo scranno dietro alle scrivanie di Repubblica e della Rai da 150 anni. Uno che nel 2008 si augurava l’avvento di un “Jimi Hendrix dell’elettronica” e che ha salutato i Maneskin come i salvatori del rock: la tenerezza fatta a giornalista. Castaldo dedica alle dichiarazioni di Bono addirittura un intero indignato articolo su Repubblica. “La verità è che imbarazzati siamo noi per come distrugge un patrimonio e si fa beffe della credulità della gente” scrive, immaginiamo offeso nel profondo dalla propria stessa mancanza di competenza.
A caldo scrive un editoriale di critica ad un artista di cui ignora completamente la geografia di pensiero, ma ecco il punto: non riesce a non farlo. Il giornalista non immagina che esistano ancora sistemi complessi, non riesce a ragionare d’arte perché la sua generazione ha deciso di smettere di ragionare tanto tempo fa e accusa Bono di “gettare palate di malevolenza su qualità e storia del gruppo”, come se a disporne fosse lo stesso Castaldo. Un sogno psichedelico di parole a caso e livore giornalistico senza nessun senso. Il delirio di pareri in libertà in attesa di commentare il prossimo festival di Sanremo.
Bono infrange la legge suprema di questa era: non asseconda l’auto-adulazione facilmente codificabile. Confonde i piani e mostra le debolezze di quello che rappresenta: il peccato mortale di una società dal pensiero automatico. Castaldo è indignato perché ritiene che i depositari del giudizio sull’epoca ormai finita del rock debbano essere gli scribacchini e non le rockstar. Così il cantante degli U2 non può tramutarsi in una riflessione sul senso della musica rock: il cantante degli U2 deve essere solo il cantante degli U2. Castaldo, sostanzialmente, è turbato dal fatto che qualcuno, per giunta un musicista, offenda la sua nostalgia. Non voglio davvero sapere cosa avrebbe detto Castaldo di Picasso fosse stato un critico d’arte del Novecento o cosa pensi attualmente del percorso di Bob Dylan. Per l’appunto, questa piccola vicenda su Bono ricorda quando Dylan fu insignito del premio Nobel per la letteratura nel 2016. Da una parte gli indignati del "La letteratura è dei poeti e non dei musicisti" e da un’altra i plaudenti del "se lo merita: ha scritto Blowin’ in the Wind del 1963 facendo sognare i ragazzini che fummo prima di diventare così orrendi". Pochissimi, praticamente nessuno, che sapessero raccontare al pubblico italiano il vero perché di quel Nobel, che con la nostalgia non aveva nulla a che fare. In Italia i più ignoranti sulla musica sono quelli che scrivono di musica. I più belanti, i meno acculturati, adulanti quando è facile adulare, massacranti quando è facile massacrare. I giullarini di micro-corti formate da un unico suddito: loro stessi. Altro che Bono, lucidissimo auto-diagnosticatore delle proprie idiosincrasie. Qui l’imbarazzo lo dobbiamo ingoiare noi, nell’ennesima conferma che da queste parti la critica musicale è appannaggio di totali incompetenti.