Intanto nei film emerge il tema dell'ambiguità morale. May December di Tedd Haynes e Anatomia di una caduta di Justine Triet, entrambi in gara, convincono anche per la loro capacità di indagare sulle zone grigie delle relazioni sfidando le semplificazioni.
"Accuso l'uomo, infastidisco l'artista", "Patriarcannes", "Violenza sotto il tappeto" sono alcune delle scritte comparse domenica mattina intorno alla Croisette al Festival di Cannes. I collage, rivendicati dal collettivo Tapis rouge colère nere (uno stendhaliano tappeto rosso, rabbia nera), vogliono denunciare il cinema di potere che difende il sessismo e la violenza sessuale. Il collettivo è vicino a Adèle Haenel, esponente del MeToo francese, che ha da poco abbandonato la carriera d’attrice (lo definisce “atto politico”) per diventare ballerina e attivista a tempo pieno.
All’inaugurazione Heanel ha accusato pubblicamente il Festival di Cannes e l'intera industria cinematografica francese di difendere stupratori, veri o presunti, come Roman Polanski e Gerard Depardieu, e di idolatrare uomini accusati di violenza come Johnny Depp. Durante la conferenza stampa il boss, Thierry Fremaux, ha risposto così alle accuse: "Non siamo un Festival di stupratori". E quando un giornalista gli ha chiesto cosa pensasse della polemica intorno all’apertura con Maïwenn e Johnny Depp, ha detto: "Non mi interessa molto...". Risposta che è stata interpretata come prova di cattiva coscienza. A onore del vero, ricordiamo che Gerard Depardieu avrebbe dovuto presentare il suo ultimo film, Umami, ma è stato escluso a seguito delle accuse di violenze sessuali avanzate da tredici donne.
Ma la guerra dei sessi non si limita alla violenza. Oggigiorno la battaglia è totale. Il nuovo femminismo, capeggiato dalla scuola intersezionale, vuole decostruire l’intero sistema di potere. E il cinema e Cannes non sono esclusi. In questi tempi di meticolosi bilanciamenti uomo-donna nelle posizioni di comando (i lavori meno prestigiosi sembrano evitare tali controlli), è stata messa in discussione la direzione della giuria, “patriarcale”, poiché guidata nuovamente da... un uomo, ovvero Ruben Östlund, vincitore di due Palme d'Oro per due film acclamati da pubblico e critica, regista che ben rappresenta lo spirito della nuova estetica scandinava. È un po' segno dei tempi sentire Thierry Fremaux dire: "Come ho detto a Ruben, volevamo una donna a capo della giuria…”. Una donna. Ma alla fine hanno scelto Östlund. Merito o cospirazione patriarcale?
Dubbi che possono fare riflettere sulla complessità delle dinamiche di potere e sui pericoli de-individualizzanti delle quote rosa per principio. Viene in mente la fascinosa rapper belga Shay, vera matriarca, che nel talent show Nouvelle Ecole, ora su Netflix, di fronte a due colleghi che vogliono far procedere una ragazza, dice tagliente: "Sapete che non è al livello degli altri. Volete farla andare avanti solo perché è una donna. E io questo lo odio.” E i due maschi - parolieri di violenza, cash e testosterone - abbassano lo sguardo, piccoli come criceti.
Una domanda. Shay, che rifiuta le quote rosa per principio perché protettrice del patriarcato o perché custode dell’orgoglio femminile, rigettante la carità? A voi la scelta. Parlando di parità, vale la pena sottolineare che quasi la metà dei film in competizione ha una regista al timone (otto, tra cui l'italiana Alice Rohrwacher con Chimera). Un dettaglio trascurabile? Diremmo di no, per un campo che fino a pochi anni fa era prettamente maschile.
Fortunatamente, al Festival, accanto alle sfilate, alle indignazioni e alle dichiarazioni audaci, troviamo anche i film, luogo in cui la realtà si manifesta in tutta la sua ricchezza di sfumature e zone grigie. Pensiamo a May December di Todd Haynes, con Juliette Moore e Natalie Portman. “May December” è un’espressione che indica una coppia con una considerevole disparità di età (“Quelli che in Francia chiamano Le Macron” dice Haynes in conferenza stampa). La storia ruota attorno a Elizabeth (Portman), un'attrice ambiziosa che arriva nell’apparente vita tranquilla di Gracie (Moore). Elizabeth vuole conoscere e osservarla. Presto, infatti, la interpreterà in un true crime. Gracie è un’ex-sex offender. Il numero trentasei è un elemento ricorrente: era l'età di Gracie quando è stata beccata con un tredicenne, Joe Yoo, ora suo marito (Charles Menton). Trentasei anni sono anche quelli di Joe, padre ormai di tre ragazzi, e di Elizabeth, che ha la presunzione di poterlo salvare dalla castrante Gracie. Il film, elegante e molto hollywoodiano, apre uno squarcio sulle interdipendenze e i non detti.
L’ambiguità regna anche in Anatomia di una caduta, della francese Justine Triet, con Sandra Hüller (potrebbe vincere il premio come migliore interpretazione: è anche nell’acclamatissimo The Zone of Interest). Il plot, che gira intorno all'accertamento giudiziario sulla sua colpevolezza o innocenza, è fitto di piccole rivelazioni. Chi è vittima o carnefice? Il giudizio muta e si rimane interdetti. Anatomia di una caduta (finalmente un film che rappresenta lo scrittore d’oggi: poco glamour e pochi soldi, molta frustrazione) nuota nell’incertezza delle nostre stessi morali, così forti quando dobbiamo emettere proclami, così deboli nel quotidiano. La guerra fra i sessi è qui una guerra fra pari, un conflitto che mira all’annientamento e alla castrazione dell’altro. E che alla fine si mostra per quel che è: un gioco di potere.
E così, il Festival di Cannes, dentro e fuori ai cinema, si rivela come un’arena in cui si scontrano i leitmotiv delle indignazioni e delle battaglie culturali dei nostri tempi. Ma è proprio nei film che paradossalmente troviamo un riflesso più vicino alla realtà.
Quanta realtà c’è, invece, negli slogan infuocati che si incontrano per il centro di Cannes? Siamo veramente di fronte a un "Patriarcannes"? Eppure non sembrerebbe. Secondo, è giusto etichettare il Festival come una congrega di stupratori che nasconde le malefatte sotto il tappeto? Una cosa è dire che l’abuso sia fenomeno diffuso, un’altra definirlo "problema sistemico" in una società di maschi dominatori. L’atteggiamento generalizzante rischia di danneggiare i casi specifici, di fomentare l’astio fra i sessi e di promulgare un senso di rassegnazione… E’ davvero il caso? Insomma, a processo devono andare i vecchi porci come Weinstein o il presunto colpevole Depardieu, non tutti i maschi del pianeta. Ne va della nostra salute sociale e mentale.