Mai come quest’anno il Festival di Sanremo è la vetrina della musica italiana. Almeno di quella mainstream, sempre che ce ne sia ancora che non ambisca a diventarlo. Un florilegio di nomi di big reali, neo-big, wannabe-big, next big thing in town, condito da nomi improbabili, recuperati non si sa bene da dove, di ritorni attesi e anche attesissimi, con ospiti dei cantanti in gara che un tempo a Sanremo ci sarebbero forse andati solo se superospiti con gettoni a sei cifre. Molti, ingenuamente, indicano questo cambio di rotta al tocco magico di Re Mida Amadeus, colui che si è preso carico del Festival giusto un attimo prima della fine del mondo, parlo di quella momentanea imposta dal Covid, una sorta di stand-by generale, e, proprio nonostante il Covid, ricordiamo tutti il Festival del 2021, i palloncini in sala al posto del pubblico, Irama a passare in video solo attraverso un filmato delle prove, uno dei suoi risultato positivo al virus, l’isolamento e la paura, oltre che la mestizia, o proprio grazie al Covid, quando tutto si ferma, concerti, promozione, show case, firmacopie, quello che passa il convento diventa la sola chance di esserci, è riuscito nel miracolo di rende affascinante per tutti Sanremo, numeri all’auditel pazzeschi, certificazioni dei brani in gara a pioggia per tutti i mesi seguenti, una allure che manco i Grammy o l’half-time del SuperBowl.
Mettiamo tutti i tasselli al loro posto, questo mentre in riviera scorrazzano in gara artisti come Giorgia, Gianluca Grignani, Anna Oxa, gente che ha fatto la storia della musica leggera, gente che riempie gli stadi quali Marco Mengoni e Ultimo, il dominatore assoluto delle classifiche, Lazza, diciotto settimane in vetta alla classifica nel 2022, artisti che hanno fatto sfaceli in classifica e in radio, Elodie, Madame, Ariete, Mr Rain, Mara Sattei, Coma_Cose, Tananai, grandi ritorni dal passato, Paola e Chiara e Articolo 31, e come ospiti nella sera dei duetti sono previsti in arrivo gente che a sua volta ha fatto la storia, Eros Ramazzotti, Elisa, Arisa, Edoardo Bennato, Baustelle, Alex Britti, Sangiovanni, qui parliamo di storiella recente, Le Vibrazioni, inutili star qui a fare l’elenco completo.
La realtà è sì fatta di un mondo che si è fermato e che ha trovato nel Festival, quel luogo che un tempo era giustamente guardato con sufficienza da chi faceva i concerti, da chi dominava realmente le classifiche, da chi aveva una credibilità e un pedigree di quelli impeccabili, l’unico porto sicuro, anzi, proprio l’unico porto e basta. Come è fatta di un mercato che nel mentre si è immobilizzato come gli animali selvatici che di notte attraversano le strade buie quando incrociano gli abbaglianti delle nostre auto, la paura di morire che porta, è ovvio, a una sicura morte, lungi da me star qui a spiegare che le tantissime certificazioni arrivate a pioggia sono in realtà frutto della scelta scellerata della FIMI di premiare come fossero vendite gli streaming, i flop di tanti tour estivi, parlo dell’estate 2022, di artisti che quelle classifiche hanno dominate dimostrano come ascoltare gratis qualcuno sullo smartphone non equivalga affatto a diventarne un vero fan, di quelli che mettono mano al portafogli per andare a comprare biglietti (biglietti che oggi costano come un monolocale in centro, tra l’altro, da qualche parte gli artisti dovranno pur guadagnare, visto che lo streaming non porta loro altro che certificazioni di cartone). Quindi un nuovo mondo, non troppo dissimile a quello indicato da Aldous Huxley, quanto a angoscia, dove tutti vogliono esserci, perché là fuori c’è il grande nulla. Ma la realtà è anche fatta di un pubblico che, nonostante si senta sempre più protagonista, i social che hanno apparentemente azzerato le distanze tra star e fan, ricordiamo come proprio durante il lockdown gli artisti fossero quasi costretti a fare quelle imbarazzanti dirette da casa, diventa sempre più pecora di quanto già non fosse, o forse, semplicemente, il fatto che lo sia sempre stato oggi è ancora più evidente. Ci siamo sentiti dire per anni, noi addetti ai lavori, in primis, e a cascata il pubblico da casa, che il successo di un determinato brano, di un determinato artista, anche di un determinato genere, parte sempre e soltanto dal basso, dal gusto del pubblico, e che quindi il mercato, passando dalla discografia, non può che, di volta in volta, adeguarsi a quel gusto. Come dire, se una canzone funziona è perché piace, e siccome piace il mercato ci si appoggia sopra, andando a cercare qualcosa che le somigli, almeno nelle intenzioni.
Anche qui, tutto molto bello, a volerci credere.
Funziona l’indie? Tutti a seguire l’indie, anche chi, per sua storia personale o cultura, prenderebbe un qualsiasi cantautorino sciatto vestito con un K-way e un cappellaccio in testo e gli darebbe un sacco di mazzate.
Funziona la trap? Bene, tutti a cercare artisti fuori dalla porta dei carceri minorili. Autotune come se piovesse, testi che se uno si soffermasse a leggerli verrebbe da stare per una volta dalla parte degli sbirri.
E così via.
Però, ovvio che c’era un però, anche in questo caso si tratta di una favoletta, come quella dell’Amadeus su raccontata.
La musica che piace non è la musica che piace e che si impone, ma è la musica che viene imposta, e quindi piace. Chiaro che detta così la faccenda diventa meno romantica, anche piuttosto fastidiosa, perché a nessuno piace l’idea di venir dipinto come un boccalone che segue i diktat fatti dall’alto in qualche ufficio milanese (la discografia, Spotify, i principali network, sono tutti a Milano, spiace). Ma se ci pensiamo bene, e pensiamoci, è sempre andata così. A nessuno può piacere qualcosa che non ha la possibilità di ascoltare, e questo è un fatto. Ma alla lunga, anche qualcosa che non ci piace più di tanto, se ce lo troviamo sempre in tavola, finirà per piacerci, chi all’ultimo anno di asilo continuava a opporsi alla minestra col formaggino preferendo il digiuno?
Di più, una estetica, se imposta dai media, finisce per diventare l’estetica, l’Estetica.
Qualche esempio?
Abbiamo tutti esultato, chi più chi meno, quando Kate Bush e la sua Running Up That Hill, brano del 1985, è tornata in vetta alle classifiche di mezzo mondo. Certo, a arricchire quella favoletta c’era il fatto che lei, tagliata fuori dallo show business per sua scelta e per scelta del medesimo show business, fosse titolare non solo dei diritti d’autore, ma anche del master del brano, come dire, non solo era in vetta alle classifiche ma si mangiava anche il resto della torta, in barba alle multinazionali cattive e crudeli. Ma in fondo perché Running Up That Hill di Kate Bush è tornata in vetta alle classifiche trentatasette anni dopo essere uscita? Perché una multinazionale ce l’ha imposta, colonna sonora della serie Stranger Things di Netflix, mica partita dal basso?
Idem, tutti abbiamo esultato, qui un po’ meno, perché Kate Bush è uno scricciolo che rassicura più dell’estetica punk e sexy di Lux Interior e Poison Ivy, quando la Goo Goo Muck dei Cramps è tornata in auge, stavolta addirittura quarantuno anni dopo essere stata pubblicata. Tornata, poi, si fa per dire, perché i Cramps non sono mai stati così mainstream. Comunque, per qualche tempo si è parlato a ragione di loro, della loro verve irriverente e dissacratoria, sessuale più che sensuale, e tutto questo perché? Perché qualcuno, dal basso ha deciso che era arrivato il momento del loro riscatto? No, ovvio. Perché Tim Burton l’ha scelta come colonna sonora del momento più iconico della serie più iconica del momento, Mercoledì, Jenna Ortega a fare un balletto presto diventato virale su tutti i social Tik Tok in testa. Certo, il fatto che sui social quasi sempre la colonna sonora reale del film sia stata sostituita dalla pur apprezzabile Bloody Mary di Lady Gaga, addio amati Cramps, la dice lunga su come in effetti sia proprio una imposizione dall’alto a determinare il gusto della gente, e non viceversa, ma il fatto che questo aspetto non venga praticamente mai colto e che un Amadeus di colpo spavaldo possa dire che suo intento è proporre sul palco dell’Ariston gli artisti che vanno di moda, e non semplicemente ammettere che sta imponendo e cristallizzando ogni anno mode che già il mercato stava imponendo di suo è sintomo di un mondo, questo sì huxleyiano, dove niente è mai come sembra, neanche la kermesse canora della città dei fiori.