Esiste questo grandissimo fraintendimento che vuole che chi scrive, in veste di giornalista o di critico musicale, due lavori che solo in apparenza sono imparentati tra loro, debba necessariamente essere in grado di prevedere come un contest come il Festival della Canzone Italiana di Sanremo andrà a finire. Fatto che diventa ancora più paradossale se si considera che, per dire, fino al giorno in cui le canzoni non vengono immesse nel mercato (cioè il successivo al primo passaggio all’Ariston, da lì in poi entra in scena anche l’andamento nelle piattaforme di streaming e anche nelle radio), le quotazioni dei bookmaker sono basate esclusivamente sui voti che i giornalisti e i critici musicali danno ai brani dopo i preascolti allestiti dalla Rai a metà gennaio.
Una sorta di paradosso wellsiano per cui chi decide la prossima mossa è in qualche modo chiamato a prevedere quale sarà la prossima mossa, ancora più paradossale perché chi decide quale sarà la prossima mossa, sempre i giornalisti e i critici musicali, spesso si trova a vestire quei panni solo nei giorni del Festival, occupandosi per il resto dell’anno di giardinaggio, costume o altro, e perché, in tutti i casi, ha già a disposizione quel controsenso chiamato Premio della Critica, premio al quale prendono parte come votanti tutti gli accreditati in Sala Stampa, quindi appunto non solo critici musicali, ma anche giornalisti musicali, che tendenzialmente si trovano a dare notizie, non certo a fare critica musicale, solo a Sanremo dotati del doppio superpotere di pesare anche per un buon terzo del voto finale, e il fatto che spesso chi vince il Premio della Critica non vinca la classifica interna alla Sala Stampa dei voti per la vittoria finale del Festival la dice lunga sul bipolarismo di cui la Sala Stampa evidentemente soffre.
Ma è proprio nel farsi profeti in patria, o meglio, nel chiedere e chiedersi chi andrà a vincere che risiede il primo potentissimo paradosso, perché chi si occupa di giornalismo musicale e tanto più chi invece si occupa di critica musicale non solo non dovrebbe occuparsi anche di previsioni, quelle in genere sono appannaggio degli astrologi o al massimo di chi è chiamato a allestire previsioni più serie, come gli scienziati, ma dovrebbe proprio rivendicare il fatto di non riuscire a intercettare il gusto del pubblico, specie se pubblico di massa come quello sanremese, attento come dovrebbe essere a occuparsi di altre scale di valori, su tutte quelle artistiche, lo sguardo rivolto alla qualità invece che alla quantità. Invece è un continuo chiedere ovunque, anche con fare di sfida, gli screenshot delle risposte salvati con cura per poter poi rinfacciare una previsione sbagliata, o, peggio, quelli fatti da soli per rivendicare una previsione azzeccata, ve lo avevo detto io, manco si trattasse di una gara a chi la sa più lunga, lasciamo poi perdere la questione di come nel tempo il Festival della Canzone Italiana sia diventati il Festival dei Cantanti Italiani, artisti scelti per il proprio nome e quel che quei nomi porta con loro più che per le canzoni presentate, lo stesso Amadeus ha candidamente ammesso di aver invitato personalmente alcuni artisti a andare in gara, alla faccia delle canzoni che dovrebbero essere la discriminante per essere o meno dentro il cast di concorrenti in gara.
Certo, c’è stato il periodo in cui a vincere a Sanremo era chi veniva più votato con le schedine del Totip, ricorderete (prima dovete ricordare cos’era il Totip, immagino), come quello in cui si vinceva con le telefonate, e in entrambi i casi si è a lungo favoleggiato di brogli più o meno evidenti, su tutti l’edizione in cui Pupo e il principe Emanuele Filiberto, in gara con un tenore di cui giustamente nessuno ricorda il nome, ricevettero tantissimi voti che però terminarono di colpo allo scoccare della mezzanotte, come in una favola tipo Cenerentola, vai a capire che tipo di accordo c’era stato con un call center, poi, quando a vincere sono stati per qualche edizione di fila gli artisti che arrivavano da Amici, con una fanbase avvezza al televoto, si è deciso di integrare con giurie di qualità che potessero stemperare lo strapotere di Maria De Filippi, e poco conta che quelle stesse giurie abbiano in qualche modo avallato altri tipi di pastette, lo scrittore Aldo Nove raccontò come un anno in cui lui ne faceva parte la giuria di qualità aveva deciso scientificamente di non far accedere alla finalissima Francesco Renga, non si è mai capito esattamente perché. Di qui integrazione di vario tipo, la giuria demoscopica, quella degli orchestrali, ricorderete, anche qui, gli spartiti fatti a pezzi nel momento in cui si apprese che Malika Ayane non era andata avanti nella gara, anni fa, il televoto e la giuria della Sala Stampa, il “ragazzo Mahmood” a vincere su Ultimo e Il Volo. Insomma, la soluzione perfetta sembra non esistere, specie se ci si ostina a guardare al Festival non come alla kermesse dalla quale dovrebbe uscire la canzone da fischiettare sotto la doccia, ma come un luogo sacro da cui far uscire pietre preziose, manco di colpo Sanremo fosse diventata davvero la Terra promessa, come da brano vincitore cantato tanti anni fa da Eros Ramazzotti, quest’anno di nuovo nel luogo del delitto come ospite del duetto con Ultimo, sempre lui.
Unica certezza, non che sia questa gran soddisfazione, il fatto che ai giornalisti e critici musicali si continuerà a chiedere, come fossero gli oracoli non vedenti di Matrix, chi vincerà il Festival, non consapevoli che in qualche modo il loro dire ha influenzato le scommesse, che il loro voto andrà poi a influenzare quello finale e, soprattutto, che il loro voto è dato, novanta volte su cento, da gente che sta alla musica come il Festival della Canzone Italiana di Sanremo sta alla musica di qualità, forse anche un po’ meno. Togliete il voto alla Sala Stampa, oh voi che andrete a sostituire sua divinità Amadeus, e soprattutto smettete di chiederci ciò che non possiamo sapere, per quello ci sono il Mago Otelma o Paolo Fox.