Mettiamo un po’ d’ordine in questu motopiedi (“mutuperi”, robaccia in giro che impedisce il cammino, dei piedi, e traslatamente, del pensiero) che hanno fatto dire a una che fa Celentano di cognome "non parla italiano perché è siciliano", quando il siciliano non è un dialetto ma una lingua. Ricordiamo a questa sciacqualattughe (metaforicamente: colei che non intraprende attività per mandare avanti l’umana specie, ma si limita a sciacquare le lattughe, che altri piantano) che suo zio, molto apprezzato nel mondo in quanto coatto (piace molto ai tedeschi e ai giapponesi, maestri di eleganza di sandali e calzini e fotocamera al collo) è tipo uno che è diventato famoso per essere andato a letto con Ornella Muti e per avere fondato un “clan” che è un concetto “dialettale”, ossia glocal, ce l’hanno gli scozzesi, i marsigliesi e la mafia siciliana, solo che questi sono concetti complessi mentre il “clan” di suo zio è famoso per la scissione con Don Backy. Questo è il livello di preparazione di questa “étoile” (famoso bar notturno al porto di Catania dove fanno gli arancini) che in televisione ha fatto programmi di cultura elevatissimi: Amici, Pechino Express e Selfie.
Vediamo di chiarire: l’ita(g)liano, notoriamente, non esiste, esso è stato inventato dal Tg1 nel dopoguerra, ed è una accozzaglia di termini in gran parte inventati e modernissimi e senza storia, con il quale si cercava di spalmare una conoscenza, appunto, da Tg1, o da sabato sera (dove, però, ricordiamolo, non mancavano i comici dialettali) per evitare che il dialetto toscano, o quello siciliano, o qualunque altro prendessero il sopravvento su questa finzione geopolitica che è l’Ita(g)lia (quando sento Salvini dire “prima gli ita(g)liani” mi appare subito chiara la sua statura mentale, il federalismo, e il suo “prima il lumbard” aveva un senso, “prima lo ita(g)liano” invece no, e mi sovviene sempre alla mente il dialetto al turtellun del Duce che sembrava una massaia).
“Non parla l’ita(g)liano perché è siciliano”, come ha detto l’étoile che fa programmi di serie Zeta in Tivvù, non è un insulto, anzi un complimento. Su questo sito ho letto una opinioqualcosa che sosteneva: “se vuoi fare tivvù devi parlare l’ita(g)liano”, il che è vero e condivisibile e ovvio ma premettendo che oggi, ma anche ieri, ma anche domani, la tivvù la vogliono fare soltanto i falliti, le étoile venute male, coloro che vogliono riciclarsi, i morti di fama, i poveri, gli arretrati, i retrogradi, quelli “smart” scrivono serie per Netflix, fanno podcast, stand-up, start-up, non “talevisione” che guardano soltanto coloro i quali hanno una mente così povera da parlare soltanto l’ita(g)liano, il pavenu delle lingue, l’ultimo arrivato, lo zaurdo, il coatto dei linguaggi.
Non so se citare Carlo Emilio Gadda e “il pasticciaccio”, o me, che se ho venduto i miei romanzi in trenta paesi, con corso monografico ad Heidelberg, l’ho fatto in quanto scrittore siciliano, e non ita(g)liano, fedele alla lezione del grande teatro in cui ogni personaggio ha una sua lingua, un suo dialetto interiore, e fedele altresì all’altra grande lezione, quella della letteratura anglosassone, dove ogni quartiere, ogni “block” ha un dialetto diverso: pensate forse che ad Harlem parlino la stessa lingua di Manhattan, o che nell’East-End londinese parlino come a Notting Hill?
Ma viaggiate, ita(g)liani. Oppure no: restatevene nei vostri paesini, pensando di essere qualcosa o qualcuno, seduti nella vostra poltrona, a guardare la televisione ita(g)liana.
Ah, e non ci scassate la gran coppola di questa stracoppolazza odorosa di minchia.