Il ministro alla cultura, Gennaro Sangiuliano, ha espresso la volontà e il desiderio che tutti i comuni italiani siano dotati di un assessore alla cultura. E subito mi è venuta voglia di farmi buddista perché queste “volontà” e “desideri” mi repellono. Anzi, ora che ci penso, mi è venuta voglia che Sangiuliano diventi buddista, io che c’entro? Partiamo da un dato di fatto semplicissimo: da qualche anno a questa parte sembra che la politica non sappia parlare italiano. Ho detto “sembra” perché sono quasi certo che l’errore in cui si incappa è voluto e premeditato. In italiano ci sono diverse parole che esprimono significati diversi, e bisognerebbe sapere quale usare e in quale contesto usarle. “Cultura” e “Beni Culturali” sono due cose diverse, diversissime. I “Beni Culturali” sono lì, li puoi toccare, li puoi visitare, e obbligo dello Stato è preservarli e promuoverli nel migliore dei modi possibili. In questo ha ragione Vittorio Sgarbi quando dice che il ministero dei “beni culturali” è il più conservatore che esiste perché la sua funzione è “conservare”. La “Cultura”, al contrario, è ineffabile, in continua evoluzione, si situa nei processi hegeliani del pensiero, le culture si scontrano (non solo tra di loro, ma anche e soprattutto all’interno di noi stessi): come minchia può pensare lo Stato di poter mettere mano alla “Cultura”, vi rendete conto che è un delirio?
Non solo. Abbondanti rami della “Cultura” – escludendo i poeti della domenica, i cantori di corte, gli aspiranti presidenti di teatri ed enti lirici e i leccaculo in generale – hanno come funzione quella di mettere in discussione lo Stato di fatto, sono sovversivi, instillano dubbi, si lanciano con la rincorsa per prendere a testate il potere. Pietro Maria Toesca, che insegnò per anni filosofia teoretica all’Università di Parma (e che ospitò il mio primo libretto, “La morale del cavallo”, con la postfazione di Manlio Sgalambro, nella collana della oramai scomparsa Nadir Edizioni del compianto poeta Salvo Basso) a un certo punto si dimise e disse: «La cultura non può essere istituzionalizzata» e fondò la “Libera Università del Territorio” di San Gimignano. Capirete bene che la figura dell’assessore alla cultura è nient’altro che la figura di un pazzo scalmanato in preda a una sindrome narcisistica di qualche tipo che crede fermamente di potersi occupare della “cultura” di una città.
Perché non è vero che l’assessore alla “cultura” si occupa di “beni culturali”, no, non gli conviene, non è quello che gli chiede la sua mente malata, i “beni culturali”, le opere d’arte, sono fatte da altri, non da lui, di più: all’assessore alla cultura i beni culturali stanno anche un po’ sui coglioni. Lui vuole promuovere, gestire, scoprire, lanciare, lui vuole dirigere il dibattito, istituire conferenze, dettare l’agenda del pensiero di una comunità, egli vuole decidere cosa è arte contemporanea e cosa no (critici, apritevi come il Mar Rosso al passare dell’assessore alla cultura), vuole essere il gerarca del pensiero, egli, in una sola e terrificante parola, vuole patrocinare. L’assessore alla cultura è convinto che il suo patrocinio, sulla presentazione di un libro, su una mostra, su una rassegna cinematografica di registi locali esordienti, dia a costoro una patente ufficiale di artisticità, egli è la motorizzazione delle idee. Marciscano monumenti ed edifici, l’assessore alla cultura deve scoprire la nuova attrice, il nuovo scrittore, il nuovo pittore. Egli è anche un gallerista, ovviamente e al contempo una fondazione di se stesso autofondata, l’assessore alla cultura fa mostre, fa mostre per Diana! L’assessore alla cultura prende dieci premi Nobel, li mette intorno a un tavolo, poi si rivolge all’uditorio e dice: vedete cosa ho fatto? Il premio Nobel scompare, è l’assessore alla cultura che nobilita il Nobel invitandolo, patrocinandolo. E giù venti, trenta, quaranta minuti di chiacchiere in cui il nostro si loda e si sbroda. L’assessore alla cultura prende una città che ritiene fondamentalmente stupida e la rende intelligente come lui.
Inciso: voi sapete benissimo come si formano le giunte nei comuni, per cui gli assessori alla cultura sono sovente – e senza per carità vi giuro togliere niente a queste nobili professioni – geometri, idraulici, tappezzieri, pizzaioli, rappresentanti di commercio, direttori di tg, sfasciacarrozze, cassieri del supermercato, rivenditori di plastica da imballaggio, tornitori, qualche spacciatore, un paio di killer, biscazzieri, prostitute, proprietari di compro oro, albergatori, nei casi peggiori (dove la malattia mentale può raggiungere vertici perniciosissimi) professori universitari, bidelli, proprietari di disbrigo pratiche (CAF), cubiste e cubisti, skipper, ortofrutticoli e via discorrendo: dipende solo dai voti che prendono e dalle contrattazioni tra le forze politiche per la spartizione degli assessorati. Smettetela di usare la parola “cultura”, essa non può, non deve, creare “consenso politico” ma “dissenso”. Al mio caro amico Manlio Messina (coordinatore FdI in Sicilia e adesso, meritatamente, parlamentare), un bravo ragazzo che conosco da una vita, con idee politiche diverse dalle mie (io sono anarco-imperialista, o faccio io l’imperatore del mondo o potete tutti andarvene a quel paese), nella scorsa legislatura siciliana assessore al Turismo e allo Spettacolo con Nello Musumeci, scrissi: «Ti propongo una stand-up di 60 minuti in cui prendo per il culo te e Nello Musumeci. Me lo protocolli?». Non me l’ha protocollato. Potreste occuparvi di Beni Culturali e non rompere la minchia alla Cultura per favore?