Maurizio Ceccato fa altro, fa lavatrici. Per come che potrebbero apparire i suoi libri agli occhi del mercato editoriale odierno sì, son pile di carta tenute insieme da idee atipiche, da forze centrifuga che premono sulla copertina e il retro del libro e chiudono una provocazione. Ifix è una casa editrice che non ha accettato alcun compromesso e fin dalla sua nascita è riuscita a ritagliarsi un cantuccio, come avrebbe detto Manzoni, per la propria arte: fumetti, illustrazioni, illustrazioni e parole, che non sono fumetti. Qualcosa, nell’ingranaggio, continua a funzionare a distanza di tredici anni, mentre i grandi gruppi editoriali vanno in direzione opposta. E allora ci si chiede se nasconda, Ceccato, il fondatore di Ifix, qualche segreto, e lui ci scherza: “Non c’è un’equazione che ti fa sentire il sapore della Coca Cola. Come nel film di Celentano Mani di velluto, dove interpreta un ingegnere che ha inventato un vetro antirapina e i suoi operai gli chiedono: qual è l’additivo segreto? E si scopre che lui ci sputava dentro”. Ma partiremmo, se non ti dispiace, proprio da qui.
Ifix nasce come risposta a tutti quelli che credono vi sia un’equazione?
Ifix è nata tantissimi anni fa, quando con degli amici avevamo iniziato a produrre delle fanzine («Ifix Tcen Tcen» e «Circus Comics»). Poi Ifix è diventato il nome del mio studio e della mia casa editrice, nata nel 2010. Questo settembre sono trentacinque anni che sono sui tavoli da disegno.
Come hai iniziato?
Ho fatto il liceo artistico e poi, contemporaneamente all’anno integrativo, che permetteva di accedere all’università, ho girato per mesi con la mia cartellina piena di disegni sottobraccio. Fortuna ha voluto che uno Studio di fumetti romano cercasse personale e così mi hanno preso. Molta gavetta: metti la cera, togli la cera.
Pubblichi da zero, contenuti completamente originali e italiani.
Sì, è più complicato, ma anche più intrigante. Significa non dover semplicemente fare un lavoro di traduzione, ma di costruzione. I libri sono contenitori di idee.
Non basta Google, per scoprire nuove idee?
Per scoprire devi sapere cosa cercare. I libri sono la finalità e sono costruiti tra due parentesi: c’è un’idea ed è solo lì, in quel mondo che la puoi trovare.
Come sopravvive una casa editrice irregolare ed eretica in un mercato editoriale che fagocita in nome dello standard?
Un bravissimo editore, col quale ho lavorato alcuni anni e da poco scomparso, Francesco Coniglio, produceva una rivista di fumetti per adulti, Blue, che per sottotitolo aveva queste parole: contemporanei all’imbecillità. Ecco, io mi sento contemporaneo all’imbecillità. Non sono ossessionato dal dover piacere per forza e tantomeno dalla vendita dei libri, anche perché se i libri li produci con la passione prima o poi li vendi tutti.
Cosa ti interessa allora?
La carta, il packaging e la produzione. Non guardo le tendenze editoriali. Guardo quello che non voglio fare. Vorrei che i miei libri fossero letti, toccati, scrutati, esattamente come si deve pretendere che un film sia guardato e ascoltato. Pretendo che i miei libri siano libri e basta. Quello che ruota attorno, penso al circo mediatico dei social, resta un rumore di fondo che forse farà vendere qualche copia in più ma non appartiene a ciò che è il contenuto che si legge e si guarda.
Storie zitte, il silent book di Simone Angelini, è una sfida per il lettore perché non legge.
Non servono “spiegoni”, il lettore non deve per forza essere guidato con delle didascalie e non deve scoprire nulla di più di ciò che l’autore non abbia illustrato e comunicato in modo chiaro e puntuale con le immagini in sequenza.
Che rapporto è quello tra editore e autore?
Quello dello specchio. Ma anche l’infermiere e l’avvocato del diavolo. Spingo dove credo si possa spingere, anche in discussioni imprevedibili, non c’è un modo di ragionare prestabilito che vada bene per tutti gli autori.
Quindi anche un rapporto di ascolto, in cui si accettano le idee dell’altro in corso d’opera.
Come diceva mio padre, se sai apprezzare quello che fanno gli altri è già una gran conquista per se stessi.
Qual è l’ultimo libro che ti ha stupito?
Ho un comodino che è una specie di ressa, i libri combattono una lotta per arrivare nelle mie mani. Leggo randomicamente senza gerarchie, dalla poesia alle ricette culinarie, dalle scienze all’astrologia ma anche i vocabolari, ultimamente un autore che ritiro fuori con piacere è Denis Johnson e il suo Jesus’ Son. Se parliamo di narrativa lui è il fronte dei miei interessi intorno al linguaggio scritto, alla narrazione.
Su Aenigma di Alberto D’Amico quanto hai lavorato?
Più di un anno e comunque è stato un lavoro in continua evoluzione. Alberto, poi, ha messo in campo oltre alla sua abnegazione per il lavoro un altro autore, Marco Giovenale, con i suoi testi poetici. Mischiare le carte mi piace moltissimo. Abbiamo messo in condivisione elettrostatica due linguaggi, il disegno e il testo, per tirare fuori una terza narrazione, quella che il lettore dovrà percepire come distillato da questa spremuta. L’opera, ciò di cui mi occupo io, è il nido, è capire come fare entrare il lettore nel racconto senza dover leggere alcuna didascalia. Le didascalie dovrebbero essere proibite”.
Perché?
Perché è un modo di degradare qualcosa: le immagini non sono la didascalia di una parola, di un titolo, di una sequenza e viceversa. Nei film ormai è una cosa diffusissima. Quasi una ferrea legge per compiacere lo spettatore. Legge non scritta, che non ha alcun decalogo ma che è entrata subdolamente nel modus operandi di molti, troppi registi e sceneggiatori che, a mio parere, hanno desaturato il linguaggio. Io lo chiamo “lo spiegone”. Pensa a Interstellar di Nolan: per tre quarti il film ha una sua ratio e tiene incollati allo schermo per tutta una serie di ganci, ami e svolte, poi butta via tutto e ci mette la spiegazione con il lieto fine. Il cinema oggi spiega le immagini”.
Il film più recente che hai apprezzato?
Bone Tomahawk di Craig Zahler.
È difficile finire in libreria?
Non abbiamo un distributore e andiamo noi di libreria in libreria a proporre i nostri volumi. Siamo su tutto il territorio italiano, nelle librerie indipendenti e anche in qualche Feltrinelli. Andiamo fortissimo in provincia per esempio.
Perché?
Forse perché lì sono forti i librai. E forse hanno una maggiore cura col cliente. Credo che questo valga per tutte quelle librerie che hanno una dimensione contenuta, come la salsamenteria e il pizzicagnolo sotto casa. Quando arriva una novità che ha una forma poco convenzionale ma che hanno apprezzato, quindi, la notano e provano a farla emergere.
Qual è la cosa più difficile da far passare al lettore abituato a tutt’altro genere di libri?
I nostri libri hanno la stessa forma di tutti gli altri parallelepipedi di carta e vengono acquistati quasi sempre da un lettore curioso. Se è il lettore a essere avido di letture non c’è nulla di difficile da far apprezzare.