Descrivimi il concetto di “hype” in due minuti. Forza, veloce. Facile, proietto il teaser del ritorno dei Club Dogo nel 2024. È arrivato sul web e il web è impazzito. E poi è arrivato l'annuncio delle prime tre date ufficiali della reunion, il 10, l'11 e il 14 marzo 2024 al Forum di Assago. Te ne accorgi, quando il web impazzisce sul serio, perché diminuiscono i commenti social bislunghi, quegli infiniti botta e risposta in cui due o più sconosciuti provano a insegnarsi reciprocamente la vita, e aumentano i commenti secchi, lapidari. “Leggende”. “Godo”. “Per i trapperini è finita”. Sì, per i trapperini che forse non erano neppure al mondo quando Guè (allora anche Pequeno), Jake La Furia e Don Joe esordirono con “Mi fist” (2003; Vibrarecords lo ripubblica nel 2004), forse sta per arrestarsi (“fermarsi” temo sia troppo) la sbornia da like e streaming compulsivo. A inizio 2024, a vent’anni circa dallo storico debutto, tornano i king, mica le quarte file che imitano le terze file che si ispirano alle seconde file. Sette album alle spalle, un successo nato nell’underground e finito nel mainstream. Prima spingono hip hop dal sapore street, americano, poi approdano alla Virgin. Quindi, all’Universal – che in quegli anni, in Italia, si stava affermando come “la major dell’hip hop” –, assaggiano il gusto del mainstream registrando i dischi più pop della loro carriera (lecito di parlare dei Dogo pre-2010 e dal 2010 in avanti).
Il Dogo politico di “Cronache di resistenza (hard to do)” (“noi generazione post-BR figli della bomba, voi generazione di PR figli della bamba”), da “Mi fist”, dura poco, ma i tre milanesi, al di là dei messaggi, mettono subito in mostra una fame sbavante che condividono giusto con il primo Fabri Fibra. L’hip hop italiano, prima di Fibra e Dogo, era in stato comatoso. Kaputt. Poi arrivano loro e la bestia affila di nuovo i denti, inquadra nuove prede. Erano ancora tempi in cui se non era greve e incazzato, non era hip hop. I Dogo, pur non essendo old school, avevano salde connessioni con le radici del genere, altro che frignate in modalità ego-trip. Don Joe, con le basi e i campioni, era di un’altra galassia. Gué e Jake, tecnici e livorosi, sputavano versi di strada estremamente diretti e persuasivi. Parlavano di droga, spacciatori, quartiere, inseguimenti col Booster. La politica era una cialtronata che aveva fottu*o tutti. Jake rappava di “Serpi”. In “Rap in guerra” (versione remix di Don Joe) un dialogo telefonico tra Guè e Fibra chiarisce il quadro: già al tempo del secondo album, “Penna capitale” (2006), i Dogo riempivano i locali di Milano “dal basso”. Zero pubblicità, pochi investimenti, solo un selvaggio tam tam popolare che li portava ad essere già eroi di un’ipotetica curva nord o curva sud non ancora rintracciata dai radar delle major. La storia del Club Dogo, in quegli anni, è ancora totalmente street e si interseca con la storia della Dogo Gang, collettivo che comprende anche Vincenzo da Via Anfossi, Marracash, DJ Harsh, Emi lo Zio, Ted Bundy e Deleterio. Sono stagioni coraggiose e creative, l’hip hop torna a spaccare ma lo fa con facce nuove che hanno fretta di lasciarsi alle spalle l’obbligatorio transito nei centri sociali. Meno impegno, meno politica; più fi*ga, football e droga, quasi come dei casuals inglesi anni ’90. Nel 2007 esce “Vile denaro” e anche il grande pubblico comincia ad accorgersi dei Dogo. Ancora controversi (“Puro bogotà”, “M-I bastard”), sono irrefrenabili. L’ascesa è costante anche se l’hip hop, nelle classifiche italiane, è ancora l’alieno, l’ospite solo parzialmente gradito. Non si sa mai bene come gestirlo, l’hip hop vero. Un feat pop, però, ti può aprire il portone delle radio commerciali (“In Italia” di Fibra, insieme a Gianna Nannini, anno 2008). I Club Dogo non cedono ancora all’invito ma prendono nota.
Le cose, a livello commerciale, cominciano a cambiare sul serio quando i Dogo approdano a Universal Music Italia. “Dogocrazia” (2009), oltre ad essere il ponte che avrebbe collegato i vecchi Dogo ai Dogo più pop degli anni successivi, unisce il lato hardcore della cricca (“Infamous gang”, “Ragazzi fuori”) ad episodi più frivoli (“Sgrilla!!”). Con “Che bello essere noi” (2010) il Dogo svolta: tutto si edulcora un po’, basi e rime si fanno meno crude e intransigenti, più facilmente masticabili perché ormai la gente si è sintonizzata. Il resto è successo radiofonico – da “P.E.S.” al feat con Arisa di “Fragili” – e Dogo-by-numbers. Succede. Succede in Italia, dove l’hip hop per sbancare sul serio deve giocoforza corrompersi. E adesso? Dopo quell’ultimo “Non siamo più quelli di mi fist” (2014) che suona quasi come una resa, tra Jake e Guè inizia una fase di gelo intermittente. Le carriere soliste dei tre Dogo entrano nel vivo, con il Guercio che sbanca la concorrenza in lungo e in largo. In un’intervista di qualche anno fa a Esse Magazine, Jake risponde in modo critico ma possibilista a una domanda su un’ipotetica reunion del gruppo: “Non ho mai escluso un ritorno dei Club Dogo, però ci devono essere le condizioni. Quali? Una sincera voglia di tornare al gruppo, una proposta degna (soldi, nda) e la voglia di lavorare. Non posso dire altro”. Non sono condizioni impossibili. “In fondo non è successo niente fra noi”, aggiunge poi, quasi non riuscisse completamente a spiegarsi e spiegare le ragioni per cui il Dogo, d’un tratto, s’è messo a cuccia. A cuccia, dormiente, ma mai domato. Lo dimostra la valanga di messaggi che hanno fatto seguito al teaser di cui parlavamo all’inizio. Il Dogo esiste nella memoria e nell’esperienza. In una Milano che oggi è diversa, popolata dai figli trap di quei (cattivi) maestri che il prossimo anno metteranno tutti in riga (ops).