Il Salone del Libro di Torino è un mostro. Non è mostruoso, è proprio un mostro come quelli dei film Universal degli anni ’30, enorme, un Leviatano che si ingozza di libri, eventi e ospiti per vomitare creator, booktoker, tiktoker, grandi editori, piccoli editori, hostess gnocche, sfigati, bambini, vecchi, cani, sordomuti, panini, birre Moretti e tantissime altre cose ancora. Un mostro che ingurgita tutto, dallo stand con i libri sul Papa a un libro sulla cacofonia del verbo cagando, dove per ogni Joel Dicker ci sono migliaia di poveri diavoli e poveri cristi che hanno pagato 240 euro (piu Iva) il loro posticino nel girone infernale degli auto-pubblicati, e ti fermano come mendicanti indiani elemosinando almeno una chiacchierata, uno sguardo, un rutto o un “non mi rompa i coglioni!”, qualunque cosa pur di illudersi di esistere e diventare i Vannacci di domani. Non so come ci siano riusciti, eppure ci sono riusciti, a trasformare il Salone del Libro in Disneyland Torino, il parco dei divertimenti per chi ha tendenze intellettuali, dove gli scrittori sono i pupazzi e i padiglioni le giostre, dove non conta più il discorso ma solo il discorso sul discorso: e allora vaffanculo ai libri, alle trame, alle parole, abbasso “il Libro” e viva “Il Salone”, dove conta solo la presenza fisica da reificare attraverso una story, per poter cucirsi addosso, nell’immaginario patchwork della propria identità, il gagliardetto da membro certificato del Nuovo Ceto Medio Riflessivo.

Sono rimasta incastrata 11 ore dentro al Salone del Libro e ho capito finalmente cosa intendessero i business coach di TikTok con l’ennesimo inglesismo: brain rot. Perché questo è l’unico effetto possibile, quando ti sbattono in faccia come in una gang bang le biografie di Milly Carlucci, Tullio Solenghi, Mara Venier, il racconto noir firmato da Flavio Insinna “Il gatto del Papa”, l’odore del sudore di 231.000 esseri umani accalcati nei 2.647 eventi programmati solo tra i padiglioni del Lingotto. Per fare un paragone, nel 2017 – la prima edizione guidata dall’ex direttore Nicola Lagioia – gli spettatori erano 166 mila, gli eventi erano 1.200 e gli stand 480. Oggi, a distanza di 8 anni, gli spazi espositivi e gli eventi si sono raddoppiati: 2.647 eventi e 977 stand editoriali. Una mutazione genetica che ha prodotto il mostro, con la forma di una bolla dove tutto avviene, e nello stesso tempo nulla accade, perché la quantità uccide la scelta, uccide il ricordo, domani nessuno ricorderà nulla, i libri acquistati finiranno intonsi in librerie di pregio ai margini di eleganti soggiorni, oggetti d’arredamento come altri. E allora viene da chiedersi: ma questo mostro a chi serve davvero? Al cosiddetto “dibattito delle idee”, ovvero alla cultura in quanto tale? No, perché non una singola idea esce dalle infinite ore di bla bla bla di cui si compongono gli eventi.

Agli editori, per vendere più libri? No, perché i dati del nostro mercato editoriale sono horror se paragonati a quelli dei principali Paesi europei, e il Salone non cambia il dato di una virgola. Tanto che, stranamente, il dato più importante, quello sui libri venduti, nessuno lo dice. Non una riga. Solo un accenno a un presunto entusiasmo della Gen Z per il romance. Comprato con i buoni cultura, probabilmente. Ai lettori, perché grazie al salone scoprono grandi autori o libri che altrimenti non avrebbero scoperto? No, perché la maggior parte dei titoli è quella di cui ho detto sopra. Serve, piuttosto, a taxisti e kebbabari torinesi, che nei giorni del Salone si pagano le ferie estive a Pietra Ligure e Camogli. Ai venerabili maestri coi capelli bianchi in cerca di avventure sessuali senili con l’addetta stampa del padiglione di fianco (ho assistito di persona a un approccio da parte di uno scrittorone impegnatone che sprizzava me too da tutti i pori). E sicuramente serve al popolo dei wannabe digitali, ai creator di qualunque cosa, rimasticatori professionisti di trend pescati nei bidoni del marketing, che una volta restavano a casa confinati nel rancore e oggi invece possono scrivere su Instagram “oggi ho presentato il libro X al Salone” (gratuitamente, si intende). Ma forse il senso di tutto risiede, ancora una volta, in Ornella Vanoni, che presenta la sua autobiografia per La Nave di Teseo. L’ennesima, forse, ma non conta, visto che l’evento è sold out da giorni, come quello di Rita Pavone, che l’ha preceduta. Ecco, dunque, il cuore segreto del mostro. Il Salone-Mostro cresce, esplode, si espande ma il cuore della sua offerta resta il tuffo nel passato. Nostalgia travestita da festival: l’unica cosa che un Paese incapace di immaginare il futuro è in grado di produrre.
