Il calciatore e la fashion influencer. E sono già sul banco di Striscia. Ricordate? Cioè l’evoluzione prossima a una starletta era finire con un calciatore. Quindi anche Chiara Nasti se ne sposa uno, Matteo Zaccagni. Mi sembra tutto abbastanza vintage, i negozi dell’usato, un robivecchi che ripropone gloriosi tweed, cappotti di cammello con enormi spalle posticce. Paurosi decenni. Malinconici. Quasi quanto certe canzoni di Sanremo, tipo “Brutta” di Alessandro Canino. La tristezza che mi assaliva come un tedium perenne, mentre applausi scroscianti e fasulli precipitavano sulla simulazione. Però Chiara Nasti se l’è sposato il calciatore, con un altro si era tatuata qualcosa sul collo, era sempre un calciatore. San Siro alla stregua di alcove rosa confetto. Poi con Zaccagni si è tatuato sempre sul collo il nome del figlio (o una dedica, vallo a capire), Thiago. Deduco una congestione alfabetica. Quanto potrà mai essere infinito questo collo? Dai, nemmeno una giraffa. Influencer. Blog di moda. Il protocollo è uguale per tutte. Apri un blog, dai consigli di stile, strizzi in un selfie i tuoi occhioni smarriti come un cerbiatto, ed è fatta. Ma davvero?
Dunque arrivi a fare della superficie (estesa a questione definitiva dell’esistenza) un introito. Un patrimonio persino. Nasti sui 3 mila euro a post. Poveretta. Il mio metro di misura è sempre il senegalese naturalizzato italiano con i 750mila euro. Khaby Lame può comprare una città al giorno. Fallo, accidenti. Ci infiliamo i profughi del mondo, in una settimana li sistemiamo tutti. A te non costa altro, mio caro Khaby, che scrivere due stupidaggini. Puoi salvare il mondo con le stupidaggini! Non potrebbe la Nasti. Andiamo nel suo profilo Instagram, due milioni di follower. Tanti, ma non bastano a salvare il mondo. Anche perché la Nasti è affaccendata in cose ben più divertenti, ad esempio affittare lo stadio Olimpico per il cosiddetto gender reveal party. La tentazione di sputare per terra è fortissima, soltanto perché importiamo ottusità americane, poi siamo un po’ meglio emancipati, ecco perché la tentazione di sputare per terra ha in sé qualcosa di taumaturgico. Ve lo traduco: affittano lo stadio per dire ad amici e parenti di che sesso sarà il nascituro.
Questi serbatoi di invidia sono funzionali al mestiere dell’influencer, il quale deve limitarsi a inanità costose, costosissime sarebbe meglio. Perciò 60 mila euro per affittare l’Olimpico rientra perfettamente nel protocollo di facezie da comporre come un disegno deficiente, deficiente di volumi, contorni, profondità. Il sesso del nascituro viene annunciato in video wall. Un cartello enorme: It’s a boy! Un maschietto, di nome Thiago per l’appunto. Evviva, che novità. Voglio dire poteva essere una bambina, e se ci fosse stato un terzo, quarto sesso, potete scommetterci, l’influencer lo avrebbe senz’altro procreato. Che sia eccellenza in tutto!
Esclusività. Servono, servono per una specie di convenzione con la compartecipe invidia, un tandem allettante, che nutre adepti di vanità uguali, affamate, che incontrano oscenità, noi le chiamiamo provocazioni, o talune avventurose furberie da perdonare (vorremmo dire trucidare, infilzare con roncole e vanghe) con una pacca metaforica, paternalistica alla nostra cara, pregna di tatuaggi, i soliti zigomi e le medesime esorbitanti labbra inturgidite, mentre, noi, digrigniamo i denti per l’odio e la rabbia schizofrenica, per cui talvolta la si spaccia per moralismo, o benealtrismo, sentimenti da yeti metropolitani, che i social hanno tanto bene dato alla luce (alle tenebre, sorry), una procreazione in vitro di obbrobri affetti da logorrea da opinionismo. Però io ho ancora speranza, aspetto la fine del mondo.