Cos’è un influencer? Reindirizza il pensiero? Se riuscisse davvero a farlo sarebbe un fatto spaventoso, banale e spaventoso. Non siamo al cospetto di pensatori che militano nell’infausto ideale dell’arte per l’arte, l’arte che riecheggia il recondito, l’arte che insegue la suggestione dell’oltremondano, sorprendendo dettagli di un confine oltre il promontorio del tangibile. Siamo al cospetto di molto meno. Nulla che sia necessario affiori tra le labbra di un influencer, sordo al cosiddetto orecchio spirituale che il genio e la creatività hanno custodito alla stregua di uno scrigno di misteri salvifici, in breve la nostra stessa profondissima identità animale. Da anima. Cosa sono gli influencer e perché il nostro tempo ne ha stabilito la collocazione, l’effimero necessario? Nel paradosso dell’effimero necessario in fondo si è fondato uno stile di vita, si è tentato perlomeno di estenderlo, una pellicola trasparente in grado di poggiare sugli avvenimenti allontanandoli con una facilità stupida oltreché inesatta.
Proprio nel bel mezzo dello iato tra vita e pellicola, avvenimento e proiezione, volontà ed estensione dell’ego, conficcano i loro sfavillanti baluardi gli influencer, che potremmo chiamare molto più semplicemente opinionisti, esteti dozzinali, salottieri con adorabili calzari, signorine alla moda con righe di eyeliner sulle palpebre di straordinaria precisione. Il nostro tempo ne ha stabilito la predominanza, come se non avesse altro da proporre, smarcata l’autorevolezza di una qualsiasi ideologia: il poeta che smarriva il proscenio, durante la rivoluzione socialista, ricordate, lo diceva un personaggio di Kundera, nel romanzo Lo scherzo.
Spersi, dopo aver esaurito memorie, eroismi, narrazioni altrui, tuttavia, oggi non sappiamo che farcene, nel reset miserrimo li proponiamo a noi stessi, promulgatori su larga scala di sciocchezze, né troppo avanti né troppo indietro, né troppo buoni né troppo cattivi. Bisognerebbe poi indagare perché ci interessi tanto conoscerne le gesta. Affatto epiche. La medietà brillante che pare una via per tutti, e non lo è per nessuno. Lo sproloquio sgrammaticato che si veste di superbia innalzato a scandalo, uno scandalo in fondo piacione, che non disturba mai veramente, se non nella misura in cui possa bastare. Vedete? Sono tenaglie, invisibili. Divisione, separazione, inganni ottici, trompe l’oeil, direbbero i francesi.
Se volessimo desumere una ragione, troveremmo anime sofferenti, precipitate nell’ordine imposto del feticcio, neonate forme di paganesimo che si fanno largo diseguali e maldestre, piazzanti tondelli ovunque, minacciando la nostra libertà che dimora nello spirito, esempio inedito di bellezza, non replicabile, congenita, un talento. Un talento per ognuno. E questo è smarrire la via, la verità, la vita. Tutto va bene, fuorché la via la verità la vita. Vanno bene montagne di idiozie, idoli fraudolenti, cascanti, tenuti su con malizia, per indottrinare come si può, sbarrando l’orizzonte e l’insopprimibile consapevolezza di esser fatti per qualcosa di più, qualcosa che attiene a un dopo, un dopo che non ha mai fine, lo chiamiamo trascendente. Lo chiamiamo Dio.
Perché nel Totem tutto inizia e si conclude. Nella questione enorme, nella più terribile delle domande, passando per minuzie, per cose piccole, patetiche, per mondanità cineree che in sé contengono già la parola: fine. Anime sofferenti, che si accalorano nelle avversioni fasulle, abbattere la piatta volgarità, il filisteismo borghese, e lo facevano gli artisti, lo fanno. E invece, invece è tutto sempre molto molto meno.
Eccetto il totem, il dopo. Una certa nostra dimestichezza con l’infinito.