Piuttosto che interrogarci sulla ragione per cui Giulia De Lellis abbia un seguito (5 milioni di follower su Instagram, per dire), come una qualsiasi signorina buonasera, sorride, immediata come un libro stampato o una velina post anni ’80, enucleazione della creatura un po’ effimera stilizzata da Antonio Ricci, arrendiamoci al fatto in sé che costei ci sia, soggiaccia nella fortuna di una certa graziosità nell’insieme, l’odalisca poggiata su una foglia di loto, dormiente o vigile poco importa. Una installazione. Inutile. Questo è l’antefatto e l’epilogo. Come spesso ci sono apparse vane, persino grottesche, costruzioni iperconcettuali o glisser iconici del postmodernismo, che credo in pochi abbiamo capito, perché chissà forse non c’era proprio un che da capire. O anche sì, c’era da capire il neonato idolo: il parossismo dell’autoreferenzialità.
Oggi le influencer sottraggono il plusvalore dell’irriverenza. Basta esser belle all’incirca (motivetto abbastanza noto), nondimeno modicamente, senza mostrare la straordinarietà che potrebbe diventare privazione. Belle nel modello standard, non so, una discreta berlina, appena sfornata da una concessionaria. Meglio che un coupé elaborato a cinque marce da un tal Pininfarina, una bianchina cabriolet, vecchiotta, chincaglieria allo stato delle cose, con suggestioni superate e persino un po’ lente. La profondità, il sincretismo con una qualche forma d’arte da coniugare al futuro. No, meglio una beltà formato cadeau. Meglio una libertà morta, scriverebbe il guru dell’espressionismo Hermann Bahr. Il suo manifesto fu profetico. Guardiamo ora la De Lellis, ora le immani fighette, ora leggiamo alcuni brani della poetica: “Noi non viviamo più”. O ancora: “Mai vi fu epoca più sconvolta dalla disperazione, dall’orrore della morte”. E tuttavia sono perfette, perché ricapitolare lucori funesti? La morte, perché? Sono perfette e replicabili.
La perfezione non sempre è una virtù. Nella perfezione umana dimora il sospetto, è qualcosa di identico a prima. Emula il passo già compiuto, non si smarca nell’azzardo di un avvenimento inaudito, un neo al centro della guancia. Una inadeguatezza tale da motivare una siffatta pietà. La pietà nello sguardo da cui si staglia la bellezza. Tuttavia la De Lellis risponde molto bene al manifesto della contemporaneità spicciola. Va bene va bene, nonna Abelarda ha detto la sua. Però, ammettiamolo, in questa grande soirée di scintille senza fiamma, lustrini spazientiti, gote tirate fino allo svilimento, non è già tutto un funerale, un celebrare requiem di party in filter, gettando commiati nervosi come coriandoli. Non è già un congedo dall’uomo? Da quale uomo? Inesplicabile involucro dentro cui indagare memorie neglette, che potevano essere applicate, un tout compris che avrebbe potuto detenere una opportunità. Sedersi tra folli, masturbarsi fino alla fine dei propri giorni, chiosa la voce narrante di Tropico del cancro. Avrebbe un senso la futilità, l’inanità sicché diventa sconcezza, la sconcezza l’etica rivestita di biasimo, il biasimo l’alter ego della compassione. E finalmente la compassione chiederebbe udienza all’anima e strapperebbe l’uomo all’involucro vanitoso e puerile di cui si è fatto adepto.
Il feticcio uomo potrebbe avere una possibilità. Ecco le condizioni. Le notizie che riguardano la De Lellis sono altrettanto facili, al pari delle sue pose da autoscatto. Ma si chiama selfie. Per facilitare. Facilità. Ogni tanto, sbocca la parola chiave. Il chiavistello che apre tutte le porte, dietro cui non c’è altro che Sé stessi. Il sé latente, il sé pauroso e frangibile. È il pensiero angustiato che finisce per rovinare festa, la domanda del cavolo, proprio alla fine: ma tu hai capito chi sei?