E allora Lorena Bobbit che evirò il marito? Ma ci arriviamo. Intanto fatemi esprimere la mia vicinanza nei confronti di Chiara Valerio. Ho letto la sua riflessione, pubblicata da La Repubblica sul “femminicidio”, parola dell’anno secondo la “Treccani” (ma pure voi Treccani, ma che le fate gli scherzi?) e noto che la logica, quella bella, quella dei sillogismi, non le appartiene, o le appartiene oltre quell’“adeguato” spinoziano che Umberto Eco esplicò ne I limiti dell’interpretazione (quando la logica interpretativa supera i limiti imposti dalla statistica, per così dire, o da altri ragionamenti logici che la delimitano, portando un ragionamento a coincidere, de facto, con un delirio o un “complottone”, anche inconscio – come le trance della bella Amparo ne Il pendolo di Foucalt, che poi trovare una logica nell’Es è, per dirla con Sigmund Freud, una minchiata di suo) e senza tenere in conto Blaise Pascal e Renato Cartesio che imponevano di porre freni al ragionamento per non farlo sconfinare in fantasia – intesa come contrario della “logica” e non come “teoria”.
Voglio dire: capisco la retorica, l’inviluppamento narcisistico di un ragionamento ad mentulam che si autosodomizza nella gioia della sua stessa castità, come direbbe Salvador Dalì, la follia salivatoria del darsi ragione, la danza sui tasti delle proprie convinzioni assolute, l’adrenalina fuhreriana dell’incitamento delle folle, la parola che fluendo ti scolpisce e ti dà un’identità (principio logico) che altrimenti non avresti (ma l’identità non sta nella descrizione, ma nell’immagine, o nell’ “adeguatezza”, appunto, della descrizione all’“immagine” – comprendi o te lo spiego meglio?), capisco anche la “funzione” che Lei si dà in una falsa interpretazione francobattiatesca che diventa la seggiola dalla quale arringare, capisco l’ottusità insomma (il ragionamento ad angolo ottuso, cieco, col paraocchi), ecco, io, tutto questo lo capisco. Le minchiate, meno. Perché dire, come ha fatto (anzi come ha “scritto”, che è peggio, molto peggio) “se Giulia Cecchettin è morta, tutte siamo a rischio e se siamo salve è per caso o per fortuna…” non solo mostra una disconoscenza (“dis” perché immagino Lei le conoscesse, prima di rinnegarle) delle regole logico-grammaticali (che minchia vuol dire “se” è morta: è morta, o non Le sembra abbastanza morta per le Sue arringhe e la preferirebbe ancora più morta?) ma è, in buona sostanza come dire: “I fulmini colpiscono gli uomini – e le donne, credo in uguale maniera, non conosco il grado di patriarcalità dei fulmini – e allora tutti noi non siamo fulminati per caso o per fortuna”.
Lei dirà, perché lo so che Le viene istintivo e oramai sembra in preda all’istinto più che alla matematica: “I fulmini sono un evento naturale e il patriarcato assassino è un evento sociale”. Sì. Ma se io dico pere Lei non può dire mele: si ricorda? Quanto fa due mele più due pere? Io parlo di logica e di matematica e di costrutto logico-matematico di una frase. Perché Lei non ha scritto di scoperte indicibili che salveranno il mondo dal patriarcato, Lei, per intanto, sta registrando un dato e ne sta traendo conseguenze: “Un uomo ha ucciso una donna, ergo tutte le donne sono salve per caso o per fortuna”, che è lo stesso ragionamento dei fulmini: abbiamo un dato reale, abbiamo una conseguenza, estendi la conseguenza di quel dato a tutto il genere umano. Un cane ha morso una donna: tutte le donne non sono morse da un cane per caso o per fortuna. E qui entra in gioco Lorena Bobbit, che evirò il marito.
Problema.
Datasi l’esistenza di una donna, Lorena Bobbit, che evirò il marito, sarebbe in grado l’allieva Chiara Valerio di esporre le sue deduzioni?
Mi risponda da matematica. Se ce la fa.