Avevamo davvero bisogno di qualcuno che si prendesse briga di riportare sotto gli occhi di tutti il video di Yellow, oltre un miliardo di visualizzazioni nel tempo? Succede questo, gli Idles, band rockeggiante e punkeggiante di Bristol, alfieri della new new wave inglese al pari dei Fontaines Dc, che in realtà sono di Dublino, quindi col cazzo che si farebbero chiamare inglesi, per dire, succede questo, gli Idles, band rockeggiante e punkeggiante di Bristol tornano sulle scene con un nuovo album, Tangk, e con un nuovo singolo, Grace, il cui video è al momento oggetto di un dibattito sui social. Come ormai tutti sanno, anche gli appartenenti a quelle tribù nella foresta primordiale del Borneo che non hanno mai visto altri che i loro consanguinei, un dibattito social è qualcosa il cui sentiment è tendenzialmente cavare fuori il sangue da qualcuno, giusto da capire chi sia la vittima predestinata al sacrificio. Nel dibattito riguardo Grace, non poteva che essere così, a finire di volta in volta sotto i colpi di mannaia verbale sono gli Idles, rei di aver profanato un video ritenuto sacro dalla band di Fix You, o i Coldplay, rei semplicemente di esistere e di aver propagato negli anni quel loro rock-pop all’acqua di rose.
Di fatto, messa la tara alla discussione, che come tutti i dibatti social non lascerà traccia dietro di sé, va detto che quel che gli Idles hanno fatto, complice la fantomatica ai, cioè lavorare sul deepfake andando a aggiustare i labiali di Chris Martin sulla melodia e il testo della propria canzone, il cielo giusto un po’ inscurito, sia mai che la malinconia coldplayana non lasci spazio a un crepuscolo che semmai è presago di apocalissi.
In realtà, e questa è una delle due notizie che, casualmente, troverete nel corso di questo pezzo, Tangk è un album che per la prima volta ci mostra gli Idles nudi. Attenzione, non sto parlando di pudenda messe in bella vista, nessuno a un certo punto, emulando Vittorio Sgarbi, se ne è uscito in studio, dove Nigel Godrich, Kenny Beats e il loro fondatore e chitarrista Mark Bowen hanno lavorato di produzione con Joe Talbot e gli altri membri, sic, del gruppo, con qualcosa che suonasse tipo “adesso tiro fuori l’uccello”, no, seppur l’attitudine punk della band di Bristol lo potrebbe prevedere. Questo è l’album che per la prima volta ci mostra gli Idles nudi nel senso che in questo lavoro il gruppo ha deciso di offrirci le chiavi di accesso al loro lato più intimo, personale, emozionale.
Per questo, anche per questo, Grace è un brano che seppur con ancora degli spigoli in bella vista, di quelli che se li becchi di notte, scalzo, mentre vai a pisciare (o se sei il tipo della pubblicità di Prostamol fai finta di andare in garage perché hai sentito un rumore e pensi ci siano i ladri) tiri giù una bestemmia che neanche Fiorella Mannoia sul palco dell’Ariston, è un brano che ben si sposa al video di Yellow, canzone intima e petalosa dei primi Coldplay.
Nel vederlo, seppur anticipato da un certo clamore, avevo pensato a qualcosa di eversivo, con magari un finale truce, che invece non c’è. Di più, non c’è neanche nulla di lllegale, Dio quanto avrei adorato sapere che Chris Martin ha sbroccato nel sapere di questa operazione, distruggendo la sua villa a Malibù, Dakota Johnson a cercare di calmarlo, niente di tutto questo, perché, ce l’ha raccontato lo stesso Joe Talbot, l’idea di deepfakare il Chris Martin di Yellow gli è venuta in sogno, e appena si è svegliato non ha fatto altro che chiedere il permesso allo stesso cantante dei Colplay. Il quale, ci mancherebbe altro, non solo si è detto più che disponibile a questo intervento dell’Ai, ma si è anche messo a disposizione, non sappiamo esattamente come e dove, della suddetta Ai, lì a collaborare perché i labiali coincidessero perfettamente alla nuova canzone.
Insomma, noi che si era pensato a qualcosa di fantascientifico, Chris Martin che un giorno si sveglia e, come in un episodio inedito di Black Mirror, si ritrova nel video di un’altra band a cantare una canzone che non ha scritto con una voce diversa dalla sua. Una specie di incubo lucido, ma senza che questo abbia a che fare con Jodorwski, come appunto quelle persone cui qualcuno manda su whatsapp un video porno che ha loro stesse per protagoniste, se non vuoi che lo tiriamo fuori sarebbe il caso che ci pagassi. Qualcosa di avvicinabile, pensavamo, a quanto fatto dai Negativeland con gli U2, ai tempi, recentemente una mossa analoga, almeno da un punto di vista teorica, l’hanno fatto i Mariposa col brano Fiorella Mannoia, proposto durante la settimana del Festival proprio mentre la rossa pasionaria calcava le assi dell’Ariston intonando il suo inno alle donne dal titolo, appunto, Mariposa.
Il fatto è che, seconda notizia, questa nuova frontiera del videoclip, usare un vecchio video, di grande successo, oltre un miliardo di view su Youtube, se da una parte apre prospettive artistiche interessanti, si pensi al cut-up praticato dai beatnik andando a ricucire insieme le opere altrui, William Burroughs in testa, ma volendo anche Kathe Acker, che ha addirittura coverizzato grandi classici della letteratura, ma si pensi anche alla Dream Machine di Brion Gysin o, per venire all’Italia, alle tape mark di Nanni Balestrini, collaborazione poetica avuta con un computer Ibm negli anni Sessanta, dall’altra sembra guardare verso un inaridimento di quello che a lungo è stato un terreno fertile, più una trovata di marketing che un’opera d’arte. Sfruttare le potenzialità dell’Ai, con tutto quel sottotesto di paure e ansie, come se domani ci dovessimo svegliare in un mondo dominato dai robot, che suggestione anche romantica, dai, per dar vita a qualcosa di non troppo diverso da certi stacchetti comici di Striscia la Notizia, certo con una definizione molto alta, ci mancherebbe, ma senza guizzi o inventive, lascia un po’ spiazzati. Come del resto lascia spiazzati l’apprendere che gli Idles sembrano aver scoperto che esiste una via all’introspezione, anche a un rallentamento di ritmi, non solo musicali ma vitali, solo oggi, anno del Signore 2024. Intendiamoci, qui essere fraintesi è un attimo, come è un attimo finire poi nel tritacarne, gli Idles hanno ancora una fanbase piuttosto nutrita anche nel bel paese, anche stavolta, come negli album precedenti, dove era il sociale a essere oggetto delle loro attenzioni, il loro post-punk usato come grimaldello per far parlare di diritti nelle sale del potere, anche stavolta gli Idles hanno sfornato un album interessante, intenso, seppur intenso in altro modo, ottimamente composto e altrettanto ottimamente suonato. Un ottimo lavoro, che nulla però toglie a questo spaesamento, e ci mancherebbe pure che aver sfornato qualcosa di bello e importante ci privi del sacrosanto diritto di non comprendere un passaggio di questa operazione che appare esclusivamente di marketing. Non che Crawler, quarto album della band, non lasciasse intravedere queste nuove frontiere, seppur qui l’introspezione, da un punto di vista testuale e compositivo, e l’elettronica, dove per elettronica si intende l’utilizzo di sequenze, certo, e di macchine, ma anche quel patchwork di sovrapposizioni di tracce che forma una base decisamente diversa dal sound fin qui presentato, da un punto di vista prettamente di suoni, hanno portato la band decisamente altrove, quasi che del post-punk fin qui espresso rimanesse solo una specie di cicatrice da mostrare a beneficio di camera. Del resto, immagino, provare a lavorare più sul fronte melodico avendo a disposizione il monolito di suoni cui ci avevano abituato fin qui sarebbe stata impresa epica e destinata immancabilmente all’insuccesso.
Tutto questo per dire cosa? Oltre che per dire che sì, gli Idles sono tornati, e sono tornati spogliandosi di quella corrazza da black block per mostrarsi nudi e crudi, e per dire che nel farlo hanno sposato non tanto una via paracula a canzoni d’amore, crescendo si diventa comunque sentimentali, ci mancherebbe altro, e comunque raccontare i sentimenti oggi, non immaginatevi un album conciliatorio o sdolcinato, non in senso assoluto, è qualcosa a suo modo di controcorrente, quanto piuttosto una via paracula alla promozione, Chris Martin che nel video di Yellow, video che tutti abbiamo visto chissà quante volte, che canta la loro Grace. Un’occasione persa, per certi versi, perché a suo modo è uno dei primi esperimenti mainstream di deepfake sul fronte video, a memoria indubbiamente il primo che utilizzi una rockstar per veicolare le canzoni di altre rockstar. Come avere una macchina da Formula 1 e andare in seconda incolonnati nel traffico. O peggio, come avere tutti i colori possibili sulla tavolozza e decidere di dipingere una tela bianca di bianco, in maniera uniforme.
Per intendersi, passare da posare vestiti da donne, con tanto di codini alla Pippi Calzelunghe, omaggiando Frank Zappa, a fare un deepfake serio con Chris Martin qualcosa sembra essere andato storto. A questo punto, ma forse è alzare troppo il tiro, avremmo preferito, che so?, che Joe Talbot impersonasse il Tommy Lee del famoso filmino con una giovane Pamela Anderson, o comunque qualcosa di decisamente più urticante, anche di politicamente scorretto, come ci hanno fin qui indicato, che so?, loro che stanno a guardare Louis C.K. mentre si fa una sega in camerino, prima di uno show. Qualcosa che desse in qualche modo uno scossone vero alla nostra attenzione, e anche al nostro immaginario, perché, per dirla con le parole per una volta tutt’altro che minimaliste di Raymond Carver, “Non ce n’è uno di voi in questa stanza che potrebbe riconoscere l’amore, neanche se si alzasse e ve lo mettesse nel culo”.