Cinquant’anni senza Ingeborg Bachmann sembrano cento. La sua poesia e persino il suo nome appartengono a un passato che facciamo fatica a immaginare. Lo stesso di Brecht, di Celan, di Benn, ma che Bachmann attraversa diversamente almeno per due motivi: perché incompresa e perché donna: “Voglio dire, naturalmente ci sono già state tante scrittrici, e anche molto brave, alle quali non oso neanche pensare di paragonarmi; eppure, io credo, non ci sono ancora state delle ‘scrittrici’. Cioè delle ragazze che non solo anno scritto, ma che allo stesso tempo sono state costrette a scrivere sotto la pressione di una scadenza, uno scrivere al doppio del prezzo, come pure hanno dovuto fare tanti uomini, spendendo a loro volta parecchie energie”. Una donna, tuttavia, che già dopo la sua prima raccolta, Il tempo dilazionato, era stata consacrata dal Der Spiegel come una delle voci più imponenti della Germania dell’epoca, tanto che Henry Kissinger, il futuro segretato di Stato americano, l’avrebbe invitata a una Summer School a Harvard.
Parigi, Ischia, Napoli, la Puglia, la Basilicata (non ricorderà mai, Bachmann, se la distesa di tulipani che la impressionò fosse ancora nel tacco della Penisola o nella stessa terra di poeti ben più concreti di lei, come Sinisgalli, tanto abituati ai tulipani da finire per pubblicizzare auto). Una poetessa che ha viaggiato ottenendo riconoscimenti e, seppur non appagando i suoi obbiettivi finanziari, riuscendo a vivere in parte grazie all’attività di scrittrice, scrivendo e partecipando a programmi radiofonici. La sua seconda raccolta, Invocazione all'Orsa Maggiore è, in qualche modo, uno strano compendio dello studio e delle esperienze di Bachmann, frettolosamente considerato o troppo oscuro o troppo musicale e dunque manieristico, ma che invece dimostra ciò che si credeva fosse superato dalle avanguardie o rincorso solo dagli epigoni: la lirica.
Invocazione all’Orsa Maggiore, ripubblicato in questi giorni da Adelphi, è un libro dalla lunga gestazione e causa di vari ritardi che portarono più di una volta alla violazione delle scadenze editoriali con la Piper, che tuttavia si mostrò sempre comprensiva verso la più importante poetessa in lingua tedesca del tempo, che invece di consegnare il libro finito prima della partenza per gli Stati Uniti, procederà nella scrittura ben oltre, sempre più consapevole che l’Invocazione non poteva essere un lavoro di sintesi di quanto già scritto, ma un percorso diverso, fatto di primi sguardi, di esperienze, ma anche del cuore dei suoi studi e delle sue letture (da Heidegger, a Wittgenstein e Simone Weil), in modo da creare un nuovo linguaggio capace persino di comprendere morale e impegno sociale senza degradare la poesia a una quasi-prosa manifesto (come ha sempre rischiato Brecht). Ingeborg Bachmann ha amato la fuga prima come esperienza, poi come esperienza dell’esilio, mostrando in pieno Novecento quante ancore fossero le possibilità della poesia.