“La verità, vi prego, sull’amore”. È una richiesta che fanno solo i poeti. Oggi l’amore è soltanto sinonimo di scontro (politico, culturale, sociale, religioso). Ma, davvero, cos’è? “Quando canta alle feste, è un finimondo?” A chiederselo è Wystan Hugh Auden, uno dei più grandi poeti del Novecento, inglese trapiantato in America, non un’America qualunque ma New York, nel 1939. Morto cinquant’anni fa. Questa poesia la ricordano tutti, e fanno bene. È uno dei rari componimenti davvero totali, in grado di ispirare e cogliere la fattispecie dell’amore, con un titolo di trinitaria perfezione: verità, amore e preghiera, cioè sant’Agostino (dove pregare non è subito pregare Dio, ma chiedere con intensità esistenziale).
È impossibile parlare della poesia di questo moderno Virgilio, che fece dell’individuo la porta di ingresso verso un soggetto collettivo mai ridotto a moda, a collettivismo ideologico. Tanto che si troverà sempre in difficoltà, come ricorda Edward Mendelson nella prefazione a Poesie scelte, la raccolta pubblicata da Adelphi, a farsi rappresentante di una sinistra che certo aveva scoperto in giovane età, prima di riscoprire quel cristianesimo frugale dell’infanzia. Lui stesso rinnegherà parte della sua opera che noi, invece, non potremmo mai trascurare. I poeti, senza dubbio, sanno parlare del loro tempo e del futuro più di qualsiasi analista. Non è un caso che il suo poemetto a più voci del 1947, L’età dell’ansia, darà finalmente un nome a quell’epoca, a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, segnata dall’atomica e dalla vulnerabilità. Potremmo allora dire, semplicemente, che Auden ha saputo parlare del presente e del futuro con lo sguardo del vate, pur non volendo esserlo fino in fondo, in un’epoca che della figura del poeta cantore del tempo avrebbe anche fatto a meno.
I poeti vivono là dove servono, come le lattine vuote e schiacciate sotto ai cespugli che attirano i bambini che passeggiano sotto al sole. Però, avvicinandosi, quello che sembrava una lattina diventa un essere parlante, un brucaliffo, qualcuno che scava per te così che tu possa riscoprire frammenti della tua identità. Auden tornerà a sé, al suo io, alla sua vita, nel corso di tutta la sua attività poetica. E ringrazierà, tornato a Oxford, la Nebbia, “sorella immacolata” dello Smog americano, familiare mansueto che “istiga” alla calma, alla tranquillità, all’ultima fase della vita ma anche all’inizio, in quell’immagine della lievitazione di un impasto sotto un panno caldo. La sua opera uscita postuma, Grazie, nebbia (Adelphi, 2011), è un gioiello tanto raro da farci dubitare sia stato scritto soltanto il secolo. Ha, sì, la freschezza, anche linguistica, del mondo moderno (di cui non può, Auden, che criticare “prosa trasandata” dei Giornali che parlano solo di “fatti violenti e sordidi”), ma anche il canto, un lirismo sapienziale. A mezzo secolo dalla scomparsa molto si potrebbe dire e troppi non diranno; ma prendiamo quell’invito alla voglia di capire e alla vita che persino in tarda età, e probabilmente fino a quella notte viennese tra il 28 e il 29 settembre 1973, Auden non sconfesserà mai e, anzi, continuerà a ribadire: “Non riesco a immaginare / nulla che io desideri di meno / che essere uno Spirito staccato / dal corpo e non poter masticare, / sorseggiare, toccare superfici, / respirare gli odori dell’estate, / comprendere la musica e i discorsi, / oppure contemplare l’aldilà”.