È morto all’alba del 2 marzo, Claudio Coccoluto. Aveva 59 anni. Uno dei deejay più importanti d’Italia, icona della musica elettronica, in oltre quarant’anni di carriera ha girato il mondo con i suoi dischi. È stato tra i primi e gli ultimi ad aver fatto suonare i vinili, sperimentando ogni genere di sonorità. Coccoluto lottava da tempo con una grave malattia, ma è stato sempre riservatissimo sulla questione, informando solo i parenti e gli amici più stretti. Come Dj Ralf, con cui abbiamo scambiato due parole per farci raccontare Claudio.
Eravate amici, suonavate insieme. Chi era Claudio Coccoluto?
“Io e Claudio siamo sempre stati due tra le figure iconografiche del deejaying italiano. Eravamo visti un po’ come l’Inter e la Juve, grandi rivali, ma in modo sbagliato. Non abbiamo mai avuto problemi, non ci siamo mai attaccati né voluti male. Ma ci siamo conosciuti tardi”.
Come nel motorsport, dove ex rivali ora vanno d’amore e d’accordo.
“Esatto, quando sei in pista… ma io non ho mai avuto questa visione. Ma era quello che pensava la gente. Ognuno ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma di sicuro Claudio era un tecnico fenomenale del deejaying, gli ho visto fare delle cose che io non tento neanche. Abbiamo un approccio diverso. Paradossalmente abbiamo iniziato una carriera insieme e ci conosciamo da quando è cominciato tutto, ma è negli ultimi due o tre anni ci siamo conosciuti davvero”.
Avete anche fatto diverse serate insieme.
“Si, ma non parlo di quello. Penso più all’avere una relazione, parlarsi, scriversi. Siamo stati colleghi per tantissimi anni e abbiamo fatto un percorso parallelo, e ad un certo punto abbiamo capito delle cose che non sapevamo l’uno dell’altro. Ho scoperto delle cose di lui che non sapevo come la sua forza, la sua tenacia ed anche la sua dignità. Io ho seguito la malattia dall’inizio, e sono stato uno dei pochi a cui si è confidato. Non aveva reso pubblica questa storia, ma io la sapevo benissimo. Ne abbiamo parlato spesso con lui, con Gianmaria, il figlio. O con Albertino, con Alex, Marco Mazzi, amici in comune… Ho veramente ammirato questa positività, questa tenacia che io non credo di avere. Questa forza gliel’ho anche invidiata, un po’. Quando parlava di questa bestia era sempre positivo: ‘la controlliamo, in qualche modo la risolviamo’, non l’ho mai sentito dire cazzo, non ce la faccio. Poi è arrivato il momento in cui non ce l’ha fatta, la bestia è stata più forte di lui. Però sai, sono contento di averlo conosciuto meglio… e che siano riusciti a portarlo a casa sua, che se ne sia andato partendo da lì. Era quello che voleva, andarsene nel suo studio, la cosa più preziosa che aveva. Vicino a sua moglie, ai suoi due figli e ai suoi amici. Spero non abbia sofferto. È molto bello, se così si può dire, andarsene con le persone che ami vicino a te”
Come ha cambiato il deejaying in Italia? Il suo marchio, la sua intuizione.
“Io credo che il focus di Claudio fosse la tecnica. Aveva un gusto musicale molto personale, e su quello non eravamo molto simili. Avevamo un modo di intendere il deejaying in modo un po’ diverso. Di sicuro, tecnicamente con i vinili è stato uno dei più grandi deejay che abbia mai sentito, tra i migliori al mondo dal punto di vista tecnico. Aveva un sapiente uso degli effetti, dei trick… ed era sempre molto coerente con la sua visione musicale. Poteva piacere o non piacere, ma faceva comunque il suo”.
Che canzone gli dedichi?
“Oddio, per questa ci devo pensare un attimo… Un pezzo di Keith Jarrett. Aspetta, resta in linea. Eccolo. Sun Prayer Live, Kit Jarrett Trio. Il disco si chiama Tribute”.
Andate a sentirla su Spotify, Tidal, Apple Music. Insomma, ovunque.