Ho visto per la prima volta Franchino quando avevo 17 anni. Nelle nostre vite, durante i primi 90, oltre a crescere i peli sotto le ascelle, stava entrando con prepotenza qualcosa che ci avrebbe cambiato per sempre: la musica progressive. Era quel ritmo in crescendo, come le montagne russe, che ci divideva dagli altri, ci faceva sentire alternativi. Ci distingueva dai noiosi fighetti che si esaltavano con il Dj Time di Albertino e le canzoni di Ligabue e ci teneva lontani dai comunisti fogati con il rock pesante o con Giovanni Lindo Ferretti. Noi eravamo la terra di mezzo, senza ideologie, desiderosi di essere diversi.
Il movimento progressive è stato un made in Tuscany ruspante, nato nelle periferie del pisano, e quasi per caso divenuto tendenza nell’Italia intera per tutto l’arco degli anni 90, quando il paese stava subendo una delle sue principali trasformazioni dalla Prima alla Seconda Repubblica, da Craxi a Berlusconi. A noi non interessava niente, il nostro partito era la discoteca.
Prima di uscire sceglievamo con estrema cura il club preferito, un genere, una melodia, un viaggio musicale. Sceglievamo anche l’abito, che serviva per farsi notare. E per non destare sospetti nei nostri genitori, ci mettevamo doppi pantaloni e un cappottone che serviva per coprire t-shirt con le piume o magliette tecniche da ciclista.
In discoteca eravamo tutti amici e consapevoli che avevamo atteso l’intera settimana per l'arrivo in consolle del nostro messia. La sua discesa tra la gente era quella di un eroe, come fosse un personaggio irreale, colui che incarnava il distacco dalla realtà, dal volgare quotidiano delle file alle poste e ai semafori. Perché, quando quel folletto magrolino con i capelli lunghi e la voce che incantava, prendeva il microfono in mano, un sabato notte si trasformava in magia.
Sì, la magia, quella che Franchino, nome di battesimo Francesco Principato, siciliano di origine classe 1953, ha trasmesso a tre generazioni di adolescenti e che oggi chissà se è riuscito a farla entrare in testa anche alle sue galline, sei, ognuna con un nome di battesimo, che chiama a sé con un vocalizzo cui fa eco un gatto che non miagola, ma canta e sembra voglia imitarlo.
Oggi io ho superato i 40, lui i 67 (l'articolo è di settembre 2020, ndr) e lo ritrovo nella sua bella casa in campagna, sempre nella provincia di Pisa, ai margini di un bosco, in mezzo agli animali e alla natura, con una piscina dove ha costruito una struttura che potrebbe far pensare a un barbecue e invece, come lui stesso ci conferma, è un piano per la consolle. Uno spazio di ritiro, riservato e silenzioso, al quale possono accedere pochi eletti, amici o collaboratori.
Quasi non ci posso credere che sono venuto a intervistarlo, che siamo uno di fronte all’altro, che sono entrato nella sua vita fino al punto di osservarlo mentre dice “vieni da babbo” per chiamare gli animali. Mi sarei aspettato un uomo stanco, acciaccato dalle troppe serate, dai bagordi di chi ha goduto all’estremo ogni attimo della notte, dagli anni vissuti senza regole. Invece no. Franchino è giovane, più giovane di me. Ha l’anima del ragazzino e il rigore di chi ama alla follia il proprio lavoro e mette a punto meticolosamente ogni dettaglio.
"Di notte si fa i bischeri, ma di giorno si lavora. Ho passato una vita intera in discoteca, di notte, ma sono sempre rimasto in certi parametri, altrimenti sarei morto”.
Sorride sotto gli occhiali da sole e cammina in mezzo agli animali: “Vedi quel gallo? Si chiama Ramon, l’altro Pedro. Mi piace stare con gli animali. Sono innocenti, più puri delle persone. Ti presento anche il mio chihuahua, Margherita. Non mi molla un attimo, dove vado io viene lui. Poi ho anche due conigli, cinque gatti e una tartaruga. Ci stanno bene qui, si sentono liberi”.
Liberi, era quello che volevamo essere anche noi di quella generazione, quando ci inventavamo scuse per fare un po’ più tardi il sabato sera e inserivamo la cassettina dell’Imperiale o dell’Insomnia nell’autoradio delle nostre utilitarie scassate. Franchino era già la nostra leggenda, uno di quei miti che non passano mai, che restano e superano cambiamenti sociali, rivoluzioni di gusti, di scelte, di comportamenti di vita. Con le sue favole hanno ballato e sognato adolescenti che oggi sono nonni, padri, madri e i loro figli, i loro nipoti. Franchino era analogico, era una musicassetta. Franchino oggi è milioni di visualizzazioni su YouTube e riproduzioni su Spotify. Franchino è musica e magia.
“La magia l’ho vista quando sono entrato la prima volta al Club Imperiale a Tirrenia, all’inizio degli anni 90. È quella pista che mi ha raccontato tutte le favole che poi sono diventate famose. C’erano persone che ballavano in accappatoio, altri arrivavano con le galline e i conigli al guinzaglio, con i capelli colorati, con le zeppe. Non avevo mai visto un locale del genere in Italia, solo situazioni simili a Ibiza. Ero andato lì da cliente quella sera, uscito ero diventato Franchino”.
Racconta di più.
“Abitavo all’Isola d’Elba e di lavoro facevo lo stilista di capelli. Pettinavo per riviste importanti, sfilate, creavo acconciature originali. Di notte suonavo i dischi alla discoteca Capo Nord di Marciana Marina. Una sera il famoso dj Miki “il delfino” mi chiese di accompagnarlo all’Imperiale e mi disse che era il posto perfetto per me. Durante la sua esibizione presi il microfono e iniziai a vocalizzare, alla fine della serata il proprietario mi propose di diventare il vocalist dell’Imperiale”.
Che poi non sei un vocalist. Il tuo è un racconto, un canto popolare con influenze musicali dal jazz alla bossa nova.
“Io sono Franco e Franchino, un bambino che ha sempre amato la musica. Quando dalla Sicilia siamo venuti a vivere in Toscana eravamo poveri, andavo a lavorare per aiutare la mia famiglia e nel tempo libero imparavo a fare il dj. Oggi dipingo le performance come un pittore fa con i suoi quadri, stimolo continuamente la fantasia. Gioco con le parole portoghesi, perché una parte della mia vita l’ho passata in Brasile, paese che ha avuto un’influenza fondamentale per la mia crescita artistica. Ogni anno, dal 1981 al 1992, andavo in Sudamerica dove restavo sei mesi. In estate vivevo in Italia, in inverno ripartivo. Proprio in Brasile ho iniziato a sperimentare la voce, approfondendo la mia passione per il canto. Con una band suonavamo blues, jazz, tribale, raggae, vivevo come loro, mi godevo uno splendido paese dove ho conosciuto anche la mia prima moglie. Lì la magia è il quotidiano, è la vita stessa, è parte integrante della musica popular brasileira. Quei ritmi sono entrati nel mio DNA e al microfono adatto la mia voce, le frasi che mi emozionano, all’elettronica”.
La storia l’hanno fatta le tue favole.
“Sì, quelle ormai le conoscono tutti: La principessa sul pisello, Cappuccetto rosso, Pollicino, Biancaneve e le sette nane. Si abbinavano bene con le melodie della musica progressive e ancora oggi è il mio modo di comunicare con i giovani. Sanno che a quella serata se ci sono io si divertono. E io racconto loro le favole. Ho sempre avuto un rapporto molto bello con i ragazzi di tutte le generazioni”.
È difficile sentire queste parole da un uomo di oltre 60 anni. Spesso i giovani vengono giucati, condannati, considerati superficiali, attratti da modelli negativi.
“Non è vero, i giovani sono bellissimi. Solo una ridotta percentuale non sa controllarsi con l’alcool e a volte combina guai, ma è sbagliato giudicarli. Io li considero come miei pari, con i difetti e le debolezze che abbiamo tutti. Anche gli adulti bevono e commettono errori”.
Hai parlato di alcool, ma c’è anche la droga che gira. E spesso viene associata con il mondo della discoteca.
“Le droghe sono sempre esistite e lo sbaglio più grande che ha fatto questa società, soprattutto in Italia, è considerare le discoteche come l’ambiente dove si spaccia e si consuma questa roba. Chi fa uso di droghe, le assume insieme ad altri amici, prima di entrare nel locale. Le comprano dal pusher del paese, salgono in macchina, fanno quello che devono fare e poi vengono a ballare. Se non esistesse la discoteca andrebbero da un’altra parte e sarebbero drogati lo stesso. Come succede con le bottiglie di superalcolici: le comprano al supermercato e le bevono nel parcheggio. Però si continuano a chiudere le discoteche, come hanno fatto con il Coronavirus. Qualche anno fa è successo che è morta una ragazza fuori da un locale per overdose, nei giorni successivi si è venuti a sapere che la droga l’aveva assunta sul treno ma, per l’opinione pubblica, la colpa è sempre della discoteca”.
Come negli anni ’90 quando ci fu l’esplosione delle pasticche di ecstasy.
“Sì, erano molto diffuse tra i ragazzi, ma non era la prima volta che la società aveva a che fare con il problema della droga. C’erano stati gli anni della marjuana, degli acidi, dell’eroina. La cocaina che girava ovunque, le anfetamine. E anche oggi non è lo stesso? Mica sono sparite le sostanze stupefacenti. È un dogma tutto italiano quello di associare un certo tipo di cultura musicale, di serata, al diavolo, al creatore di tutti i mali. È un racconto distolto della realtà che forse ha fatto comodo a qualcuno per colpevolizzare un certo tipo di movimento della notte. Come si dice in Toscana, in questo paese tutti predicano bene, ma poi chissà come razzolano”.
L’intervista si sposta dalla piscina allo studio di registrazione. Franchino ci porta nel suo regno, dove passa almeno dieci ore ogni giorno e al quale non possono accedere tutti. Ogni angolo racconta di una storia leggendaria. I disegni della figlia piccola sulla parete che riportano le frasi che abbiamo sentito cantare “magia portami via”, “Se io potessi avere una bacchetta magica”, un ritratto con la sua massima più famosa “vivere per vivere”, i dischi in vinile di musica popular brasileira firmati da Chico Barque e Joao Gilberto, e appesi come trofei i vinili con titoli che hanno fatto la storia delle sue produzioni discografiche. Per me sono libidine pura al pari del profumo della miscela del motorino, delle scollature della professoressa di francese e delle treccine di Gullit. Bonshan-Kan, Mediterraneo sono pietre miliari del mondo progressive-dream, erano quei pezzi che aspettavi tutta la sera e riascoltavi mille volte per l’intera settimana. Erano e sono ancora oggi immersioni nel sogno, nel viaggio mentale.
Franchino racconta e accende il suo impianto, è preciso e tecnicamente attento a tutto. Ci sono sintetizzatori moderni, effetti per la voce, due consolle: una analogica e una digitale, schermi, computer e tutto quello che serve per elaborare nuove storie su pezzi musicali. Dalle casse esce Go di Moby, colonna sonora della settimana puntata di Twin Peaks e qualcosa ci travolge in quella stanza, si sentono i brividi sulle braccia. È la magia. Parliamo ancora di discoteche:
Premette: “Oggi si è persa la curiosità che caratterizzava gli anni 90. Prima si pensava a tutto per uscire: capelli, abito, trucco, colori. Ora i ragazzi appaiono tutti simili, stereotipati, fighetti. C’è meno attenzione per la musica. In Italia uno su mille ci capisce qualcosa”.
E i vocalist si sono riprodotti come formiche.
“A volte mi sembra che non vadano tanto d’accordo con la musica, la violentano”.
Sei consapevole di essere diventato una leggenda?
“La fama non mi è mai interessata, anzi dopo un po’ ha iniziato anche a darmi fastidio. Nel nostro gruppo e parlo di Mario Più, Ricky Le Roy, Joy Kiticonti, Zicky con i quali lavoro ancora insieme con il progetto Metempsicosi, non ci rendevamo nemmeno conto che stavamo diventando persone famose. Eravamo giovani, io avevo 40 anni e gli altri erano addirittura ragazzi quando dall’Imperiale siamo passati all’Insomnia di Antonio Velasquez, ci venivano ad ascoltare da tutta Italia, tutti ci acclamavano come fossimo rockstar e conducevamo una vita a mille all’ora: tante donne, ma così tante che a volte avrei voluto aver un amico insieme a me, serate infinite, eccessi. Sai che significa Sesso Droga e Rock’n’roll? Ecco, quello. Devo tutto alle persone che mi apprezzano e vengono alle mie serate, ma dopo il lavoro ora preferisco tornare a casa, godermi l’intimità, la famiglia, gli animali e la natura. Poi a volte capita che le persone mi fermino per strada e mi facciano domande così idiote che preferisco parlare con le galline”.
A 67 anni ti consideri un uomo felice?
“Sì, sono soddisfatto per molti aspetti. Faccio un lavoro che amo e passo le mie giornate qui dentro ad ascoltare musica, a studiare, a comporre pezzi. Mi diverto e produco, faccio dirette su Instagram e Facebook molto seguite da persone di tutte le generazioni. Mi mancano le serate, il contatto con il pubblico. Spero che riaprano presto le discoteche. Poi la famiglia: ho una moglie e tre figlie: la più grande ha 36 anni, nata dal mio precedente matrimonio in Brasile, una 16 anni e la più piccola 9”.
Beato tra le donne.
“Mica tanto beato. Le donne hanno il loro mondo, urlano, fanno casino, non ci si può stare sempre insieme. Io sono più preciso e quando ho bisogno di concentrarmi scendo qui in studio”.
La tua voce, ciò che ti ha reso Franchino, appare più stanca, diversa.
“Ma non ho perso la fantasia e la voglia di divertirmi con la musica. La voce sì, è diversa ed è una mia ulteriore vittoria. Nel 2001 mi avevano diagnosticato il cancro, un carcinoma molto aggressivo sulla nuca. Le cure mi hanno creato problemi alla trachea e a tutta la bocca, ma sono guarito. Sono felice così. Ora devo tenere sempre la gola bagnata altrimenti faccio fatica anche a parlare. Per le serate ho trovato il rimedio, due cuba libre e sto bene. Come dire: finché c’è vita, c’è magia”.
Prima di salutare Franchino, in uno scaffale scopriamo la sua collezione di Dylan Dog, una passione carnale, da sempre. Non ha perso nemmeno un’edizione, solo l’ultimo ciclo. Spoileriamo la morte di Groucho.
“Non ci credo, era il mio preferito. Vedete ragazzi? C’è sempre un motivo per sorprendersi della vita”.