Decidere di partire da Milano direzione sud, costa Adriatica, con destinazione le Marche, l’ultimo sabato di giugno, non risponde a nessuno dei requisiti minimi per farti rientrare tra quanti praticano partenze intelligenti. Neanche tra quanti praticano partenze mediamente intelligenti. Sei proprio identificabile, a ragione, come una sorta di autolesionis*a di quelli che si fanno attaccare morsetti delle batterie ai capezzoli, con la sola differenza che invece il tuo autolesionis*o si manifesta stando fermo in coda in mezzo a milioni di altre auto, con l’asfalto tutto intorno che evapora e si surriscalda, come una colata di lava, ma privo di ogni tipo di fascino. Mi piacerebbe dire che però l’ho fatto, sono partito da Milano direzione sud, costa Adriatica, destinazione Marche, l’ultimo sabato di giugno con lo spirito del gonzo journalist alla Hunter Thompson, ma sono straight edge e al mio fianco non ho un avvocato saomano tossico, ma mio figlio Tommaso, diciannove anni compiuti ieri e l’orale della maturità discusso sempre ieri. Vorrei magari dire che allora sono una specie di Aldo Cazzullo, qui perché è qui che si trova oggi l’Italia che va raccontata e Aldo Cazzullo ama raccontare questa Italia. Ma me ne sto bello serrato in auto, aria condizionata a palla, quindi motore acceso, si fotta l’Italia da raccontare. Sto qui, in coda in autostrada ancora prima di entrare in autostrada, perché devo scendere nelle Marche per lavoro, domattina sarà già di ritorno, questa la verità. Ma sto comunque qui, quindi quello che qui succede lo vedo, lo sento, lo vivo, posso raccontarvelo. E per raccontarvelo parto, come al solito, da lontano. Lontano nel tempo, stavolta. Zenone, filosofo greco vissuto nel V secolo avanti Cristo, sostenitore della teoria monista che voleva il mondo come l’insieme di un tutto immobile, ha creato il famosissimo paradosso della tartaruga e di Achille. Achille, per chi se lo fosse scordato dai tempi della scuola, era noto come “pie’ veloce”, cioè dotati di piedi alquanto veloci. La tartaruga, per contro, è animale notoriamente lento. Il paradosso di Zenone, appunto un ragionamento paradossale, vuole che i due si sfidino in una corsa. Essendo Achille assai più veloce della tartaruga gli concede un vantaggio. La tesi di Zenone è che la tartaruga non sarà mai raggiunta da Achille perché ogni qualvolta l’eroe avrà coperto la distanza tra lui e l’animale, l’animale si sarà spostato in avanti di un tot, e così via. Rendendo infinita la distanza da percorrere, seppur la distanza si faccia sempre più breve. Nel tempo, ovviamente, fisici e matematici hanno smontato questa teoria, paradossale da un punto di vista filosofico, ma facilmente risolvibile anche solo con l’esperienza. Siccome però non sono un filosofo, né un matematico, direi che partire da questo paradosso per raccontare un viaggio in autostrada, anzi, un viaggio nell’autostrada che porta verso il mare Adriatico dal nord, nell’ultimo sabato di giugno, è cosa non solo buona e giusta, ma assai pertinente.
Perché la sensazione che si ha, chiunque abbia vissuto sulla propria pelle questa esperienza lo sa, chi l’ha vissuta con una certa frequenza potrebbe addirittura giurare di essere stato più volte superato, lì in colonna con la propria auto, proprio dalla tartaruga zenoniana, incolonnati lungo la A1, consapevoli che questo accadrà anche nella A14, lo svincolo di Bologna, sorta di buco del cu*o del diavolo capace di tirare a fondo anche le anime più belle, è quella. Tu provi ad andare avanti, ma invece no, stai fermo, e la meta sembra sempre più lontana, irraggiungibile. Primo autogrill, San Zenone, siamo dentro l’autostrada da appena sette chilometri, e mi sembra già l’oasi dentro i miraggi del deserto. Che poi uno si pensa contemporaneo, no? Cioè, fa di tutto per tenere il passo con il calendario, usa i social, prova a adottare attitudini green, prende in considerazione l’ipotesi neanche troppo remota che presto il proprio lavoro venga sostituito da quello svolto dall’Ai, ma quando arriva la bella stagione, mai come quest’anno bagnata da uno sproposito di pioggia e grandine che per tutto l’inverno e la primavera ha reso l’incedere delle stagioni come qualcosa tornato di moda, almeno su al nord, dopo anni in cui sembrava un vintage destinato a scomparire nella memoria, ecco che ti ritrovi a passare un numero spropositato di ore in autostrada, fermo in coda, il tutto senza una spiegazione plausibile che non risieda nel concetto aleatorio di “partenze intelligenti” e di “lavori fatti a casaccio”. Il Po è in piena. Lo si capisce perché arriva dove già ci sono gli alberi. E anche i campi oltre gli alberi mostrano chiazze d’acqua, tipo palude. Chissà quanti pesci siluro ci saranno, pronti a essere pescati dalle comunità di persone dell’est europeo che lungo il corso stanno accampate? Siamo in Emilia Romagna...
Le code, dicevo. Chiunque credo almeno una volta ci si sia ritrovato e avrà passato parte di quel tempo in coda, tra una imprecazione e l’altra, a chiedersi cosa mai induca gli ingorghi a formarsi. Sarà che sono uno scrittore e quindi, di fondo, sono ormai da lungo tempo pagato per dar sfogo alla mia fantasia, quasi ogni volta che sto in coda in mezzo a un ingorgo mi verrebbe voglia di alzarmi in volo, andando a capire come questo abbia preso forma, dove, come, quando è cominciato. Perché da qualche parte dovrà pur cominciare un ingorgo, no? Di questa coda, che ti si manifesta prima come alert, dalla fila rossa che vedi su Google Maps o Waze, usati come navigatori, e poi dalle doppie frecce dell’auto di fronte, magari di qualche chilometro, ci sarà la testa da qualche parte, no? Ci sarà, cioè, una serie di macchine, in autostrada almeno tre, una per corsia, dalle parti di Modena addirittura quattro, che si saranno fermate, creando la coda a seguire, e io mi chiedo perché. Google Maps e Waze, a volte, ti consigliano di uscire. Per risparmiare tre minuti, dicono. E per risparmiare tre minuti ti fanno fare cinquanta chilometri in più, passando per strade di campagna, a volte veri e propri sterrati, dove se incontri una macchina in senso opposto ti chiedi chi dei due finirà nei canali che stanno ai due lati. Risparmi tre minuti, sì, e perdi quattro anni di vita. Non che perdere anni di vita, fermo qui, sia un'ipotesi poi così scellerata. Oggi lo farò, tra Bologna San Lazzaro e Imola, impiegando le due ore che avrei passato in coda a gironzolare per le campagne locali, tra quei macchinari che sparano acqua nei campi, contadini che guardano le carovane di auto che come me seguono queste indicazioni, salvo poi dirti che c’è una alternativa, risparmi cinque minuti, e tutti a seguire pure quella. Due ore a gironzolare invece che due ore in coda, trova la differenza.
Gli ingorghi, dicevo, chissà come nascono? La risposta più ovvia - quasi sempre sbagliata - è un incidente, magari che coinvolga anche solo una corsia, ma induca tutte le auto dietro quella corsia a spostarsi sulle altre due, creando rallentamenti e code. In caso di incidente, è noto, c’è poi la teoria vagamente ballardiana, da James G. Ballard, quello de La mostra della atrocità e Crash, appunto, che la gente di fronte a un incidente rimanga affascinata. Cioè, succede questo. Una macchina ha un incidente, quindi più macchine si suppone facciano un incidente. Quelle a lato, nelle altre corsie, si fermano, per prestare soccorso o chiamare i soccorsi, e ci sta. Poi arrivano i soccorsi e le auto nelle corsie di fianco ripartono, su indicazioni delle forze dell’ordine accorse sulla scena. Anche le auto nella corsia delle auto incidentate possono riprendere, spostandosi di corsia, quindi più lentamente. Si crea un imbuto, e ci sta quindi la coda e il rallentamento. Ma c’è Ballard e la sua teoria alla Crash. La gente, cioè, sapendo che c’è un incidente, rallenta, se non addirittura si ferma, per guardare le lamiere delle auto, volendo anche i feriti e i soccorsi. In caso di morti anche gettare uno sguardo sui teli che coprono i corpi. Se ogni auto che passa rallenta o si ferma, l’ingorgo non solo è servito, ma destinato a non fermarsi per ore e ore. Questo vorrei capire e vedere. Perché, invece, ho il sospetto che a volte gli ingorghi si formino così, per caso. Senza, cioè, un incidente da guardare con ludibrio, come di fronte al rapporto tra estranei. Con mio figlio decidiamo di non fermarci a questo autogrill, e per questo autogrill intendiamo, di volta in volta, l’autogrill che ci troviamo di fronte. È un po’ come quando dobbiamo portare a casa un risultato lavorativo che va oltre le nostre possibilità fisiche, ci sforziamo di andare un po’ avanti, faremo sempre in tempo a fermarci poi. Specie se gli autogrill, li vedi, sono tutti intasati di auto, ferme o in coda per rientrare in carreggiata, specie se sai che dentro sarà una bolgia disumana, senza neanche la possibilità di starsene isolati con l’aria condizionata a palla. Quindi ci fermeremo, forse, al prossimo autogrill, nel mentre abbiamo lasciato la A1 alle spalle, sempre senza sapere come nascano gli ingorghi. Perché, nonostante la fantasia, parte integrante del mio lavoro, non mi libro in aria come un colibrì, né come un coleottero. Men che meno come un drone, ma me ne sto qui, in coda, con l’asfalto che tira su un caldo mortale, appiccicaticcio, innaturale, il fumo dei gas delle auto che rende l’aria irrespirabile, l’immobilità, questa sì zenoniana, che mi intontisce. Ci siamo lasciati miracolosamente il tratto a tre corsie, che poi sono due, quella di destra chiusa da una X sui tabelloni. Parlo di Bologna. Da adesso, per dirla con gli ottimisti, è tutta discesa. Sarebbe tutta discesa, vi ho già detto delle due ore tra San Lazzaro di Savena e Imola.
Anche a questo giro ignoro il perché ci si fermi ogni tot, certo, consapevole che mettersi in auto nell’ultimo sabato di giugno, quindi presumibilmente quando una porzione importante di popolazione si sposta dal nord verso località di mare, o per il fine settimana o per le vacanze di luglio, mi concede qualche indizio utile, e il fatto che giugno sia stato, come del resto maggio, aprile e tutti i mesi a seguire, tra i più piovosi degli ultimi quindicimila anni, rendendo ogni vago barlume di ponte o weekend precedente il corrispettivo di una chimera, me ne offre un altro, ma di fatto, per quanto io ne sappia, ogni singolo ingorgo potrebbe avere una storia a se stante: un incidente, un flashmob di Ultima Generazione, un flashmob di Nuova Generazione, con Fabri Fibra, Geolier e Rose Villain a fare free style in piedi su un Jersey che divide i due sensi di marcia. Ecco, quest’ultima parte del discorso, figlia di un calambour tra Ultima Generazione, il gruppo di giovani manifestanti abituati a lanciare zuppa di pomodoro su opere d’arte nei musei o interrompere il traffico, non in autostrada, e Nuova Generazione, il talent di Netflix sul mondo del rap, figlio illegittimo di Mtv Spit, diciamolo una volta per tutte, è frutto del mio stare qui in coda, col caldo e la stanchezza e la fretta e tutto il resto.
Un camion ribaltato come un bagarozzo che tenta gli ultimi inutili scatti di reni, sempre che i bagarozzi abbiano reni, sta lì a bordo della strada. Un buon motivo per rallentare, e contribuire al ritardo di tutta la filiera. Speriamo non ci siano stati morti, diciamo io e mio figlio, anche se lo diciamo con lo stesso trasporto che potremmo avere per un bagarozzo che tenta invano di rovesciarsi sulle zampe, forse anche un po’ meno, anche perché i camion di sabato non dovrebbero viaggiare, diciamo in coro. Non credo sia assenza di empatia, penso piuttosto sia semplicemente stanchezza, e stress. Il fatto è che sono partito presto, stamattina. Siamo partiti presto, io e mio figlio Tommaso, diciannove anni compiuti ieri, giorno in cui ha anche fatto l’orale del suo esame di maturità, la stanchezza ti fa diventare come quei vecchi rimbambiti che ripetono sempre le stesse cose, diretti verso le Marche. Un viaggio già fatto centinaia di volte, sono ventisette anni che vivo a Milano, e Ancona resta la città in cui sono nato, quella dove vivono i miei anziani genitori, quella in cui faccio ritorno almeno durante le vacanze. Non oggi. Oggi torno per lavoro, una serata da presentare ai piedi dei Sibillini, il Domina Festival di Ortezzano, provincia di Fermo. Mettersi in viaggio nell’ultimo sabato di giugno non per andare in vacanza ma per lavoro non è una cosa che avrei fatto, non fosse appunto che ieri era il compleanno di mio figlio, oltre che il giorno dell’orale del suo esame di maturità, sarei partito ieri mattino, sperando di evitare le code. Invece no, sono partito stamattina presto, all’alba, e lui è venuto con me per farmi compagnia, tenermi sveglio, mentre me ne sto in coda sotto il sole cocente o mentre gironzolo per le campagne tra San Lazzaro di Savena e Imola. Perché che oggi avrei trovato traffico lo sapevo, era scritto ovunque, accompagnato dalle parole Esodo, Bollino Nero, Vacanze, Partenze Intelligenti. Ecco, no, partenze intelligenti non c’era scritto, perché partire nell’ultimo fine settimana di giugno, direzione mare Adriatico, non è dar seguito a una partenza intelligente. È una partenza necessaria, se fino a ieri lavoravi e le vacanze ce le hai ora. O una partenza necessaria se ieri avevi l’esame di maturità di tuo figlio e oggi un impegno di lavoro a seicento chilometri da casa tua, a Milano, in mezzo seicento chilometri di code, milioni di auto, quelle lì in esodo, in coda, da bollino nero eccetera, eccetera. Siamo di nuovo in coda. Di fianco ho da entrambe le parti una monovolume straniera, almeno stando alla targa. Non saprei dire alle facce, quella di destra è troppo avanti, mentre quella a sinistra, io sto cautamente nella corsia di mezzo, come sempre, quella a sinistra è appena più avanti di noi, e l’unica cosa che vedo sono i piedi della ragazza che sta seduta sul mio lato. Che in autostrada si sia sottoposti, piaccia o meno, a una ininterrotta carrellata di piedi è cosa nota, situazione che peraltro trova spazio anche nel nostro quotidiano, camminando per strada o anche solo navigando sui social.
Sono ormai anni che le estati sono per tutti coloro che frequentano i social una serie ininterrotta di panorami visti da chi è in vacanza e mostrati a chi invece sta dietro uno schermo, i piedi dei villeggianti a fare da mirino, o fil rouge, fate voi. Piedi e anche gambe, certo, come pure pube, non credo esista il plurale del pube, ma era comunque riferito a più pube, o chiappe, i piedi più che il resto. Piedi spesso visibili sui social, anche a prescindere dai paesaggi estivi, ma che d’estate, giocoforza, sono assai più visibili, anche solo girando per la città, al pari delle tette, a stento nascoste nelle scollature, complice una sorta di indifferenza che la Gen Z sembra avere nei confronti del reggiseno, un giorno sarebbe da studiare la cosa. Piedi che, se vi state recando in un luogo di villeggiatura, avrete ottime possibilità di vedere anche dal vivo, i medesimi piedi che poi vedrete fare da mirino per paesaggi marittimi, collinari o montani, volendo anche per quelli cittadini, siano esse città d’arte o capitali internazionali, piedi che potrete ben vedere comodamente appoggiati sul cruscotto della macchina.
Una compagnia insolita proprio nelle ore destinate a passare in coda in autostrada, ne sono proprio ora testimone, compagnia che poi prosegue anche quando le auto sfrecciano, ti supera un auto e quelli vedi, mentre viene fatto l’ultimo scatto prima di rientrare in corsia, categoricamente non mettendo la freccia a destra. Se Guccini, esattamente quarant’anni fa nel 2024, ha raccolto le sue canzoni dal vivo sotto il titolo Tra la via Emilia e il West, regalandoci uno dei titoli più on the road di sempre, lui che del viaggiare in macchina ha scritto il requiem con la sua terribile Canzone per una amica, da rifuggire con tutti se stessi, qui sarebbe da dire Tra il cruscotto dell’auto e lo smartphone. Ogni epoca ha il titolo che si merita. Piedi su piedi, il paradiso dei feticisti, le ore passate dentro il non luogo che da Milano porta verso Ancona. Siamo ripartiti, pregate per noi, Rimini non è poi così lontana, e la sola compagnia in questo delirio, per me e Tommaso, è la voce del tizio che legge i tg a Radio Italia, uno vagamente effimero, con la voce asmatica, che si lascia andare a commenti buffi e fa passere per notizie anche gli auguri a amici e parenti stretti. Che poi l’autostrada che porta da Milano verso Ancona, in realtà le due autostrade che conducono da Milano verso Ancona, prima la A1, autostrada del Sole, che poi a Bologna diventa A14, l’autostrada del Sole prosegue verso Roma, passando da Firenze, è anche piuttosto noiosa, tutta dritta, salvo alcune curve, un ponte vistoso, quello di Calatrava a Reggio Emilia, fiancheggiato dalla Stazione della medesima archistar, poi una galleria posticcia proprio nel tratto di Bologna, San Luca a farci compagnia dall’alto del suo colle, i grattacieli dell’Unipol e del Pilastro a indicare altri passaggi cittadini, questo almeno finché non si arriva dalle mie parti, diciamo dopo Riccione, quando, superato l’Aquafan, sulla sinistra andando giù, arriva la galleria di Cattolica e poi il paesaggio si fa decisamente più mosso, prima col castello di Gradara a svettare sulla destra (San Marino con i suoi tre picchi è troppo distante per descriverlo prima alla stessa maniera), poi a un certo punto si intravede il mare, e poco dopo l’ombra del Conero, quindi la nostra Ancona. Trecento e passa chilometri di noia mortale, con gli ultimi chilometri un po’ frizzanti. Fatto che si ribalta al ritorno, con la parte mossa in partenza, poi la noia piatta. E fortuna che almeno adesso è tutta a tre corsie, perché un tempo le tre corsie finivano a Rimini Nord, replicando lo sconforto provato in prima istanza in quel di Bologna, dove comunque è praticamente impossibile non trovare ingorghi e code. Oggi funziona così, si parte su tre corsie, questo fino a Modena, dove le corsie diventano addirittura quattro. Poi le quattro corsie diventano tre, a Bologna, ma spesso una delle corsie è chiusa, per ragioni che sfuggono a ogni logica, da Castel San Pietro in poi le corsie diventano tre, fino ad Ancona. In realtà fino a Appignano, una settantina di chilometri dopo Ancona, poi l’autostrada si fa tutta un ponte e una galleria, panoramicissimo, ma anche scomodissimo, fino al profondo sud. Per ragioni che mi sfuggono, nonostante la gente suppongo si diriga quasi sempre verso sud, tornando alla propria terra natia, o andando in vacanza, dopo Rimini il traffico tende a farsi sempre meno impegnativo, magari c’è anche che dopo ore e ore al volante la guida procede un po’ più in automatico. Uscito dall’autostrada, a Ancona Nord, nei pressi di Chiaravalle, ci sono tredici chilometri fino a casa, quasi tutti fatti in superstrada, da anni oggetto di costanti lavori per una nuova uscita che dovrebbe ricollegarsi, nessuno ha ben capito come, direttamente al porto, immagino per mezzo di ponti e altre gallerie. Superato il gigantesco Ospedale Regionale, ormai entrati in Ancona, a Torrette, restano pochi pericolosi chilometri, pericolosi perché con un limite di settanta chilometri orari, nonostante siano un lungo rettilineo che invita alla velocità, al termine del rettilineo c’è il quartiere della Palombella, quello che arriva dopo la zona ondulata che un tempo ospitava il quartiere cosiddetto della Frana Barducci, ovviamente e prevedibilmente spazzato via da una frana nel 1983, undici anni dopo l’altrettanto tremendo terremoto che ha distrutto un’altra importante parte della città, alla Palombella, finalmente, casa di mia suocera. Un miraggio, da qui, neanche superato il Po. Ecco, nel tragitto c’è anche questo, dopo l’uscita del Basso Lodigiano, un tempo Piacenza Nord, c’è il ponte che passa sopra il Po, quest’anno ovviamente assai alto viste le tante, troppe piogge che hanno devastato il nord Italia e anche le nostre palle di abitanti del nord Italia. Ho fatto talmente tante volte questo percorso, ripeto, centinaia, che credo potrei buttare già a memoria tutte le uscite. Uscito dalla A14, Ancona Nord, ora sono in coda nella superstrada che porta verso il centro, tredici chilometri che Google Maps mi dice percorrerà in ventisette minuti. Del resto, se per fare quattrocentoventiquattro chilometri, tanti ne avrò percorso entrato in città, poco importa che lasciate le valige dovrò farne ancora altri centocinquanta per arrivare dove stasera dovrò lavorare, il mio reportage si ferma qui, del resto, dicevo, se per fare quatrocentoventiquattro chilometri ci metti sette ore che saranno mai ventisette minuti per compiere l’ultimo scatto. Ah, stasera presento una serata in provincia di Fermo. Fermo. Ogni ironia non è bene accetta.