Mi sembra che la critica italiana, ormai da molti anni, prenda un po’ troppo alla lettera la definizione che la caratterizza. Eppure, sono convinto che un “critico” non debba sempre criticare negativamente. Così La Sad – che ha stupito tutti finendo nei trenta scelti da Amadeus per Sanremo 2024 – come una marea di altri gruppi, cantanti e artisti in generale, rimangono vittime di un modus operandi che fa comodo solo a chi scrive, ma fino a un certo punto. Sì, perché è troppo facile criticare costantemente. Qualcosa che non torna lo si può trovare in tutti, compresi i più grandi della storia. Non ci credete? Leggete qui: «Eleganza, purezza e misura si sono gradualmente arresi al nuovo stile che questi tempi, dal talento superficiale, hanno adottato. Cervelli che, per educazione e abitudine, non riescono a pensare a qualcosa d'altro che i vestiti, la moda, il gossip, la dissipazione morale». “Così scriveva il critico musicale dell'autorevole rivista britannica The Quarterly Musical Magazine and Review. Era il 1825. Aveva appena ascoltato dal vivo la Nona”. La citazione è tratta da un articolo scritto qualche anno fa da Andrea Scaglia su Libero, quando ci si interrogava su Sfera Ebbasta, che mi fece molto riflettere. Non sono impazzito, non sto paragonando Theø, Plant e Fiks a Beethoven, sto dicendo che prima o poi chi si occupa di argomenti culturali dovrà prendere atto che, continuando di questo passo, si condannerà all’irrilevanza (e già ci siamo molto vicini). I Maneskin insegnano. Perché alla critica, sacrosanta, bisognerebbe affiancare anche la proposta, altrimenti si diventa dei grigi custodi di un museo – a volte più simili a gendarmi – o schiavi dell’algoritmo che ci vuole tutti perennemente indignati per qualcosa.
La premessa è d’obbligo, visto che alcuni dopo l’annuncio sanremese mi hanno detto: “Hai scoperto La Sad”. Non è così. Ho semplicemente osservato un fenomeno con attenzione, valutato quanto aderente fosse alla realtà che voleva rappresentare (senza che fosse indotto da qualche “potere forte”) e ho cercato di documentarlo per portarlo all’attenzione dei lettori e provando nello stesso tempo a spiegare perché era così in ascesa. Da questo processo è nata l’intervista di un anno fa su Rolling Stone a questi tre pazzoidi che mischiano punk, emo e trap e che mi fece rimediare più insulti che elogi.
Come li ho “scoperti”? Scollando su Instagram, semplice. Mica crederete si debba ancora andare in giro per concerti nei teatrini di provincia o nelle cantine delle città come una volta per trovare novità interessanti. Certo, poi dal digitale bisogna passare al reale e li ho visti dal vivo. Ma andiamo per gradi. Un giorno mi imbatto in un video di un ragazzo con i capelli tinti di blu che si fa chiamare Plant, che incontra quelli che sembravano dei fans e, oltre a firmare autografi, li bacia uno a uno sulla bocca urlando “mucho punx!”. All’inizio rimango spiazzato, penso all’ennesima emulazione del passato, ma poi – per curiosità – clicco sul link in bio (notate come maneggio con disinvoltura termini da Gen Z?) e mi ascolto una canzone che il ragazzino coi i capelli blu ha registrato con altri due compari, Theø e Fiks: una botta pazzesca. Si trattava di Sto nella Sad, una canzone manifesto di questa band e anche di tanti giovanissimi che li hanno portati, passaparola dopo passaparola e poghi a loro concerti dopo altri poghi a loro concerti, a prendersi il palco più ambito d’Italia: l’Ariston.
Se non riuscite a decifrare le frustrazioni dei vostri figli o delle giovani generazioni, leggetevi il testo del pezzo: “E viviamo per dimenticarci / Siamo innamorati solo dei ricordi / E sono sempre più gli sbagli dei sogni / Per quelli come me / Perché sto nella Sad”. E prosegue elencando tutti i motivi di questi malesseri sparandoveli nelle orecchie con la potenza di fuoco di un sound granitico e prodotto a regola d’arte. A questi elementi, aggiungeteci che ogni videoclip è un cortometraggio che scava senza filtri nelle pulsioni più intime degli adolescenti, che dal vivo spaccano ancora di più, che hanno un manager come Tommy Antonini, il quale dall’inizio li tratta come figli e cura ogni dettaglio con maniacale precisione, e il gioco è fatto. Ma non c’è trucco e non c’è inganno: hanno provato davvero sulla propria pelle quello che raccontano e quindi sono credibili.
Quando li ho incontrati per l’intervista, un anno fa mentre nessuna testata nazionale ne voleva neanche sentir parlare, mi hanno accolto in un appartamento di Milano soppalcato dove appena sono entrato ho faticato a vedere dove fossero. Il fumo di tre cannoni caricati a ganja aveva infatti invaso totalmente la stanza e loro se ne stavano svaccati su un divano-letto a guardare la tv e a rollare senza sosta. Nessuna inibizione, nessuna domanda sgradita, nessuna remora a vomitare nel registratore tutto quello che hanno vissuto e che pensavano, che fosse giusto o sbagliato: mi hanno raccontato le loro esistenze, tra problemi con la famiglia, con i coetanei, con le ragazze, con la scuola, con le regole imposte dalla società, che niente li aveva “aiutati” più delle droghe (almeno a sopportare quella condizione di smarrimento) e che solo in quel progetto musicale riponevano ogni speranza. È tutto sbagliato e deprecabile? Sicuramente, loro però non sono la causa. Sono l’effetto di una serie infinita di errori che oggi ci sbattono in faccia, simboli di una generazione che si sta perdendo e che, forse anche grazie al loro grido disperato, potremmo provare a recuperare. L’importante è non criticare a priori, provare a capire, ascoltare e mettere da parte le nostre certezze. Ce la faremo a Sanremo? Ho i miei dubbi. Ma finora, a quanto pare, hanno avuto ragione loro. W La Sad e W il Punk!