Andatevi a vedere il film Paolo Conte alla Scala. Il maestro è nell’anima, proiettato nei cinema selezionati ma che presto diventerà un blu-ray o finirà sulle piattaforme streaming. L’opera di Giorgio Testi che ripercorre l'evento dello scorso 19 febbraio (Conte è stato il primo artista “popolare” ad esibirsi nel tempio milanese) è un vero e proprio racconto in due atti. Con una Milano, fuori, che non batte un colpo, sempre o quasi ripresa dall’alto, notturna e severa, avvolta in un lucido scialle di luci. Stranamente silenziosa, perché il tumulto è tutto dentro il teatro. Conte primo artista “popolare” alla Scala, un evento sul serio. Tanto che, prima che l’avvocato astigiano potesse accedere al tempio italiano dell’opera e della classica, c’era stata la polemica sollevata dalla lettera – sincera e accorata – di Piero Maranghi, imprenditore milanese diviso tra progetti culturali e la Fondazione Piero Portaluppi, destinata al recupero della produzione architettonica del suo bisnonno, nonché editore, amministratore delegato e direttore di Classica HD. Ma su questo torneremo più avanti.
Paolo Conte, cantautorato nobile sotto il lampadario del tempio
Ogni fan di Paolo Conte avrà di che divertirsi a vedere il maestro, ottantaseienne, alle prese con le prove, con il difficile racconto di sé (se c’è un autore che ha cercato di fare parlare solo l’arte, questo è lui), con l’attesa di calcare un palco dove tutto, dal grande lampadario centrale ai loggioni, è in grado di farsi quieta ma potente evocazione. Il set che Conte ha proposto alla Scala non è stato una sorpresa, anzi è parso il distillato di quella selezione di brani che – canzone più canzone meno – hanno caratterizzato le scalette dell’ultimo decennio. Un testamento vivo, firmato assieme a un manipolo di musi novecenteschi da paura, una masnada di sopraffini musicisti rubati a un conservatorio a cinque stelle, al set di un noir americano anni ’40, a un’orchestra mai sazia. Alla Scala sono andati in onda quasi tutti i classici: da Gli impermeabili all’inevitabile Via con me, attraversando rumbe, milonghe, il Mocambo. Il mistero di Max, parzialmente svelato (“Max era un domatore di leoni”, ma ne siamo certi?); Alle prese con una verde milonga, pezzo che se durasse in eterno non ci sarebbe nulla di cui lagnarsi; quella frenetica e folle Diavolo rosso che è una masterclass di pittura in musica. Tutto sotto l’occhio nobile di Testi. Discreto, circospetto, silenzioso come la Milano che ritrae. Con l’idea di lasciare che l’evento comunichi sé stesso. Nessuna dichiarazione vip tra un brano e l’altro. I volti noti (da Vittorio Sgarbi a Madame, da Paolo Sorrentino a Vinicio Capossela) scorrono sullo schermo muti, solo per pochi secondi. La scena è tutta per la sublime “stanchezza” di Conte aggrappato al pianoforte, per musicisti spaventosi a cui Conte, durante la cavalcata di “Diavolo rosso”, dona orgoglioso il palco, come a dire stupitemi, colorate di nuovo questa musica che ho scritto e ora ascolto come fosse la prima volta. Conte, più vicino ai novanta che agli ottanta, oggi più che mai ha a cuore l’essenza, il nocciolo sacro della propria arte. E qui torna buona la lettera di Maranghi, parole che in un Paese più attento avrebbero dovuto suscitare un dibattito.
La lettera di Maranghi, parole d’altri tempi ma con affetto vero
Una lettera di fuoco (qui la versione integrale) scritta da un ammiratore di Paolo Conte, ma che contiene anche passaggi come questo: “Il Suo concerto è uno schiaffo alla storia della Scala; costituisce un precedente assai pericoloso; non dà nulla al Teatro da cui invece riceve moltissimo; è culturalmente un concerto “antipatico ed elitario”, come dire non vedo traccia di alberghi tristi e di intelligenza degli elettricisti”. Nella lettera però, al di là di una presa di posizione forte più o meno condivisibile, c’è altro. Una denuncia chiara, ad esempio: “Sovrintendenti-direttori artistici, quasi sempre stranieri, ci raccontano la storiella dell’internazionalizzazione (si legge omologazione) della Scala, non capendo che il nostro Teatro è stato per oltre due secoli il più internazionale dell’universo proprio per la Sua cifra unica e inimitabile. Oggi si è trasformato in un supermarket che fa cucina internazionale, si vedono e si ascoltano spettacoli identici a quelli di Amsterdam, Bordeaux, Dresda e non è più il teatro dei milanesi, come lo chiamava Stendhal”. Un punto che avrebbe meritato maggiore ascolto perché, pur non conoscendolo personalmente, abbiamo la sensazione che Maranghi non sia solo uno che non ha gradito, per dire, la svolta “pop” di Deutsche Grammophon. Crediamo ci sia di più. E se la sua missiva vi pare l’urlo inviperito di un conservatore sconfitto, leggetela meglio, c’è di che ragionare. Semmai, davanti a Paolo Conte alla Scala, è possibile supporre che anche Maranghi avrebbe apprezzato. Non tanto il pubblico, quando alla fine canta Via con me nell’irrinunciabile momento karaoke, ma senza dubbio l’ensemble sul palco. Conte, il faro, con tutte le imbarcazioni dietro. Conte che con mestiere narra di mondi andati e sceneggiature stropicciate, e rapito si lascia travolgere da tutta la musica attorno. “Parto sempre dalla musica, poi scrivo”, dice. Si sente. Si sente il respiro ampio di un autore che nella propria arte lascia spazio a parole ambigue, a versi come pennellate. La geografia di territori inesistenti in una sola frase, il rapporto con le donne in un ritornello che arriva ma chissà quanto a lungo si fermerà. E poi un clarinetto, un violoncello, un violino, una fisarmonica. Le chitarre indomabili. Per toccare l’essenza. Alla Scala.