Una volta bastava della birra calda e una maglietta con il nome di una band per sentirsi parte di una comunità. Oggi, invece, servono almeno 180 euro, una connessione velocissima e l’abilità di battere bot nel giro di 3 secondi per accaparrarti un biglietto che sarà nell'area più scomoda della location. Il concerto, da rito collettivo, si è infatti trasformato in una lotteria per benestanti. A dirlo non è il solito post indignato su Facebook, ma un articolo del magazine Internazionale, che ha tradotto un’inchiesta bomba firmata Dorian Lynskey su The Guardian dal titolo: Il grande imbroglio dei concerti. Nel mirino c'è Ticketmaster (il Voldemort della musica dal vivo), accusata dal Dipartimento di Giustizia statunitense di abuso di posizione dominante. In pratica, se vuoi vedere una band che ami, devi passare dal loro cancello. E non è solo presidiato: è anche dotato di lettore di carte di credito particolarmente esigente.

La nuova frontiera si chiama dynamic pricing, ed è il motivo per cui il biglietto che ieri costava 60 euro oggi ne costa 300. Funziona come gli aerei: più cresce la domanda, più sale il prezzo. Solo che qui non stai volando a Tokyo, stai cercando di cantare Yellow sotto al palco dei Coldplay. Ma non finisce qui. Quando i biglietti si esauriscono (spesso per colpa di bot e operatori professionisti), rispuntano magicamente su siti “secondari”, tipo Viagogo, a prezzi triplicati. E no, non è bagarinaggio da marciapiede: è business. Ma tutto questo è roba da americani, no? Sbagliato. Anche da noi in Italia il sistema ha cominciato a puzzare. Prendi i biglietti per gli stadi di Ultimo o Vasco: appena escono vanno sold out, poi li ritrovi identici altrove a 400 euro. È successo anche con artisti indie, quelli che, in teoria, dovrebbero essere “vicini alla gente”. Il problema è che il pubblico si lamenta, ma poi compra. Perché “è l’unica data”, perché “ci vado con lei/lui”, perché “è un’esperienza”. E così, l’industria si adegua: i prezzi salgono, la qualità resta ferma, e l’etica sprofonda.

Nel 2016, quando lo scandalo del secondary ticketing travolse i concerti di Vasco, sembrava che qualcosa dovesse cambiare. Addirittura si parlò di “biglietti nominali” per combattere i bagarini digitali. Risultato? Qualche tentativo, molte deroghe, e un ritorno al “tanto funziona lo stesso”. I più svegli diranno: “Ma la colpa è di Ticketmaster!”. E invece no. Lo dice anche Lynskey: “Ticketmaster è il bersaglio perfetto, ma il problema è strutturale”. Tradotto: anche gli artisti, cioè quelli che si dichiarano “contro il sistema”, chiudono un occhio affinché i conti tornino. Basta non parlarne, basta dare la colpa agli altri. E quindi? Quindi ci teniamo questo sistema truccato, dove la musica live è sempre più un’esperienza di lusso. Dove i veri fan devono scegliere se pagare l'affitto o vedere il loro artista preferito. Dove i concerti non uniscono più, ma separano: chi può permetterseli da chi non può. Oggettivamente, siamo sicuri che sia questo il futuro della musica dal vivo che vogliamo? Se sì, sarà meglio rassegnarsi a godersi i live su YouTube. Gratis, ma senza birra calda. E senz'anima.
