Se basta cantare "Bella ciao" per sentirsi parte di una lotta, allora possiamo dire che il Concertone del Primo Maggio a Roma ha ufficialmente abdicato alla propria missione originaria. A intonarla quest’anno è stato Leo Gassmann, bravo ragazzo dotato e telegenico quanto basta, ma con un cognome che certo non evoca le difficoltà di chi deve sgomitare per farsi pagare il giusto, pur lavorando. Una partenza simbolica, che suona come una dichiarazione d’intenti, seppur involontaria: stiamo giocando, non stiamo protestando. E infatti, la sensazione è stata quella di una lunghissima playlist regolata da algoritmi, in cui l’identità politica e sociale del Primo Maggio si è persa tra i cuoricini social. Una maratona sonora senza un'anima, con momenti buoni e qualche picco artistico, ma che in generale è diventata un sottofondo di promozione discografica mascherata da impegno civile.

A salvarsi, pochi ma buoni. Le Bambole di Pezza, punk al femminile con energia e notevoli doti vocali di Cleo. Gli Eugenio in via di Gioia, capaci di trovare poesia anche nella resistenza emotiva di "Altrove". Giulia Mei, con un originale patchwork musicale e testuale, e che parla del lavoro delle donne senza retorica. Anna Castiglia con un cantautorato elegante che meriterebbe ben più spazio. Dente, che tra tanto pop impacchettato, sembra un animale in via d’estinzione. I Patagarri che, con coraggio, scandiscono un “free Palestine” coinvolgendo il pubblico e ha almeno il sapore del rischio (visti i tempi). Infatti subito dopo, puntuale, la comunità ebraica ha protestato. Giorgio Poi che canta "Estate" e sembra il pronipote indolente di Gino Paoli. C’è anche la bellezza malinconica de I Benvegnù da segnalare, con uno strepitoso Ermal Meta (come nel duetto con Noemi in “One”). C'è il solito Lucio Corsi, il quale dimostra che si può essere “alternativi” e avere successo senza svendersi. Brunori, ormai cantautore maturo in pieno possesso del mestiere. Joan Thiele, con quel suo stile etereo-cinematografico che sembra riecheggiare da un film di Sergio Leone. Alfa, che con la band si lancia in una jam session almeno accennata e fa scorgere una consapevolezza. E Arisa, unica tra i Big a uscire dall’esibizione preimpostata.

Tutto il resto? Una fiera delle vanità. Gaia che twerka e fa venire il dubbio su cosa c’entri tutto questo con la Festa dei Lavoratori. Shablo che tira fuori un revival hip hop anni ’90 con Joshua, Tormento e Guè: che differenza c'era dall'ultimo Sanremo? Tredici Pietro, salito dopo Ele A e Pierdavide Carone, per quali meriti? Legno e Gio Evan, una collaborazione buona per uno spot tv (“two is megl che one”?), messi dopo Dente. Sarah Toscano, onnipresente dopo la vittoria di Amici (e pure al Festival), anche quando non è chiaro, insieme a Carl Brave, se sappia dove si trovi. Fulminacci, che aveva fatto intravedere ottime doti, ma ora sembra aver scelto di diventare il cosplay di Daniele Silvestri. Tutti lì, senza una visione d'insieme, senza una direzione che aderisca allo spirito dell'evento, che abbiano davvero qualcosa da dire. Poi c’è la solita sfilata di Big buoni per ogni occasione, da Battiti Live a Capodanno in piazza: Achille Lauro, Giorgia, The Kolors, Rocco Hunt, Serena Brancale, Ghali, Carl Brave, Elodie (ammazza quanto si sessualizza da sola), Franco 126 (che sembra passato per caso), Gabry Ponte (la commercialissima "Tutta l'Italia" ha chiuso come inno). Nessuno li mette in discussione come performer, sia chiaro. Ma ogni esibizione era la fotocopia di quella vista altrove, alcune anche peggiori. Nessuna improvvisazione, nessuna collaborazione originale, nessun tentativo di entrare in empatia con un palco che dovrebbe essere qualcosa di più di un’altra fermata promozionale. Andate a rivedervi, una su tutte e senza ideologie, l’esibizione di Gianluca Grignani chitarra e voce nel 2016.

Una volta il Concertone serviva anche per mostrarsi senza filtri (soprattutto social), per alleggerirsi dall'esasperazione del marketing che schiaccia qualsiasi artista per tutto l'anno, figuriamoci nel 2025. Oggi no. È solo promozione. È plastica (e rispetto al passato non ha neanche più la "valvola di sfogo nel costato"). È mercato in purezza. Anche questo spazio, nato come alternativa, è stato definitivamente inglobato dalle stesse regole di tutti gli altri. Che sono persino le più noiose. Un peccato, perché in un momento in cui il lavoro è un’emergenza reale, la democrazia scricchiola e avrebbe bisogno del supporto delle arti, con l’informazione inchinata alla politica e alle multinazionali tech, il Concertone sarebbe potuto rimanere un’oasi in cui ripensarsi in modo diverso. Invece si è trasformato nell’ennesimo evento generalista senza coraggio, senz’anima, senza impegno, che strizza l’occhio a Spotify (nota per retribuire gli artisti con i giusti compensi). Sfondo ideale per selfie. E allora, tanto vale affidare la direzione artistica a Maria De Filippi, aprire i camerini alle telecamere per spiare scazzi e amorazzi, e infine chiudere con un bel televoto. Sarebbe più onesto.
