A Taranto il Primo Maggio sarà diverso. Un concerto “libero e pensante” – senza sponsor, senza padroni, senza censure. Ce lo racconta Roy Paci con la voce di chi, da anni, mette la musica al servizio dell’impegno. A Taranto non ci sarà il mainstream, non ci saranno le star preconfezionate da passaggi radio e tv, ma ci sarà tanta sostanza: artisti che scelgono di stare dalla parte giusta, quella scomoda. “Uno Maggio Libero e Pensante” torna come sempre nel Parco Archeologico delle Mura Greche con il suo mix potente di suoni, parole, rabbia e speranza. Dodici anni dopo la prima edizione. E in un periodo storico in cui “governi finanziano guerre, deportazioni e devastazioni ambientali”, come hanno detto proprio Roy Paci insieme ad Antonio Diodato e Michele Riondino, diventa urgente esserci. Contarsi. "Fare rumore". E che rumore. Quello elettronico di Fideles e Riva Starr, quello scanzonato di N.A.I.P., quello rock che graffia de Il Teatro degli Orrori, e quello impegnato, viscerale, che parla alla pancia e alla testa, degli attivisti e dei lavoratori. Ma anche quello della tromba di Roy, che torna a gridare forte anche in musica con un nuovo singolo, uscito il 25 aprile – data non scelta a caso: “TROMBA” (Etnagigante/Altafonte), una dedica a Sofia, il suo inseparabile strumento: “Mi è venuto naturale scriverlo”, ha detto, “perché è il mio megafono da quarant’anni. Il mio modo per dire cose scomode, per scuotere le coscienze. E spesso, diciamolo, una nota fatta bene vale più di cento parole". E in effetti a Roy le parole non servono per fare scena. “Il concerto di Taranto non è quello di Roma. Non abbiamo l’apparato mediatico, ma abbiamo la libertà. Nessuno ci dice cosa possiamo o non possiamo dire”. E mentre lo dice, ti rendi conto che quella voce non è solo sua: è quella di una città intera, è quella di Massimo Battista - a cui è dedicato il concerto - e di chi, come lui, ha lottato fino all’ultimo respiro per una terra che non vuole più morire di lavoro. E allora ci si ritrova lì, il Primo Maggio. Non per festeggiare, ma per ribadire. Per rivendicare. Per ballare anche, certo. Ma soprattutto per ascoltare. E farsi ascoltare.

Che cosa rappresenta per te il Primo Maggio?
Per tutti quanti loro, e non penso che sia solo il mio pensiero, il Primo Maggio rappresenta, in assoluto, un momento celebrativo del grande lavoro fatto da una società che per sempre lavora, è laboriosa, è soprattutto una società di un popolo di persone che, attraverso la fatica e i sacrifici, alimenta tutto, anche coloro i quali di questo ne traggono le maggiori comodità. Quindi è la celebrazione di un giorno importante proprio per la gente normale, semplice, che ogni giorno si piega la schiena e cerca di alimentare soprattutto le economie che servono a tutti. È un giorno di lavoratori, è un giorno importantissimo, oltre ad essere anche il compleanno di mio padre. In questo caso, a Taranto, l'1 maggio diventa anche un momento per raggruppare tutte insieme quelle voci che arrivano da tutte le parti d'Italia, che non hanno abbastanza forza per poter emergere e denunciare tutta una serie di soprusi, di maltrattamenti, di ingiustizie che si perpetuano nel tempo. Questo è, nello specifico, l’1 Maggio Taranto.
L'articolo 4 della Costituzione italiana recita: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto». Ma è davvero così nell'Italia del 2025?
Ma non è proprio così. Anche perché, effettivamente, ancora ci troviamo di fronte a uno scenario che è abbastanza deprecabile. C'è lo scenario di quelli che lavorano 7 giorni su 7, 12 ore al giorno, sottopagati, e poi ci sono quelli che non fanno nulla per poter anche un po’ equilibrare queste situazioni davvero incresciose e incredibili. E poi ci sono tantissimi disoccupati. Io, per quanto mi riguarda, quello che faccio come lavoro e come mestiere nel mio mondo di produzione musicale, mi rendo conto che, per quanto noi abbiamo passione, per quanto ci spinga anche una forza interna, perché è anche questo mestiere un frutto di tanti desideri, tante passioni, quindi lo facciamo anche con grande felicità... però mi rendo conto che già nel mio mondo ci sono delle ingiustizie pazzesche.
Durante il Covid abbiamo assistito, in particolare nel mondo del lavoro legato alla musica e alle arti che sono state bloccate senza nessun supporto, al fatto che non per tutti i diritti valgono nello stesso modo. Qual è oggi la situazione nel settore?
Nel momento in cui è arrivato il momento “quarantenante” del Covid, ci siamo trovati, soprattutto gli addetti ai lavori, con il culo a terra. È stata una situazione incresciosa, proprio perché non c'è assolutamente nessun tipo di protezione da parte dello Stato per il lavoratore dello spettacolo. La classe, oltretutto, più disprezzata che c'è in Italia. Ce ne siamo resi conto lì. Io pensavo che fosse la classe dei contadini, quella dei miei padri, quella dei maltrattati, ma qui abbiamo toccato davvero il fondo. L'articolo della Costituzione è riuscito bene, ma alla fine i politicanti lo assolvono male. Chi amministra questo Paese, e lo dico adesso e da sempre, non ha avuto l'accortezza di scendere davvero ai piani, se così vogliamo dire, bassi, dei lavoratori veri, quelli che lavorano ogni giorno. Gli amministratori di questo Paese si sono tanto riempiti la bocca del lavoro, del lavoro, del lavoro... ma alla fine non hanno mai capito che per lavorare bene bisogna anche far sì che l’essere umano sia sereno, sia felice, e soprattutto non si senta sotto assedio, non si senta costretto a sacrificare la famiglia, a sacrificare i propri affetti per lavorare ogni giorno come un mulo. Questa è una cosa che veramente è allucinante. Anche perché dovrebbe essere il contrario: dovremmo dedicare più tempo alle passeggiate, alla lettura, alla vita, a tutta una serie di intersezioni olistiche della nostra importanza di stare su questa terra. Invece è tutto il contrario. Quindi è una cosa davvero incresciosa. È un’idea assurda che non solo la politica, ma anche quelli che sarebbero i cosiddetti sindacati, non sono mai scesi così nel profondo. Quello che è accaduto a Taranto è proprio questo: neanche i sindacati si sono occupati di tanti operai, di tanti lavoratori.

Se Roy Paci, dal 2 maggio, potesse diventare ministro del Lavoro, qual è la prima cosa che farebbe?
Io spero tanto di non diventarlo mai, perché sono dei ruoli talmente importanti e io vorrei continuare ad innalzarmi nella mia elevatura, ad essere sempre più stupido, più ignorante, per potermi confrontare sempre con i grandi maestri. Questo lo dico perché, per ricoprire un ruolo come quello che tu poc’anzi mi hai detto, ci vuole gente davvero capace, preparata, che studia in tal senso. Quindi non un musicista che fa tutto d'un tratto il ministro del lavoro, non uno che fino a ieri ha venduto coperte o elettrodomestici e domani diventa ministro della cultura. Io credo che ci siano delle assegnazioni da fare pertinenti alla tipologia degli studi, di tutto quello che si fa e anche un certo grado di animo, di vita condotta con la massima umiltà e anche con grande valore.
Ma se avessi comunque la possibilità di influenzare chi prende quelle decisioni, che priorità suggeriresti?
Io, se potessi consigliare al ministro del Lavoro, direi che innanzitutto bisogna riuscire a trovare il momento, o i giorni, o i mesi, o anche gli anni, per poter lavorare su un reddito minimo e costante anche per le classi meno abbienti. Soprattutto cercare di avere un occhio di riguardo per quelli che stanno morendo di fame nel nostro Paese. Guardavamo da lontano gli africani, guardavamo da lontano tutta una serie di popolazioni a noi vicine e a me care, però in questo momento sto toccando con mano, in certe periferie d'Italia, la povertà che è scesa sotto il livello di guardia. Una povertà di gente, di padri di famiglia che dormono dentro le macchine, di famiglie che hanno accampato sotto un ponte con tutta una serie di coperte e teli, con una sorta di giaciglio per potersi riparare, dal momento che sono rimasti senza casa. Non hanno un'assegnazione, neanche di una casa popolare di 10 metri quadrati. Tutto questo è aberrante. Io cercherei di smuovere le dinamiche di un settore lavorativo che non significa solo schiavizzare la gente: “Ti do il lavoro e ti schiavizzo”, ma significa anche operare dal punto di vista proprio psicologico nei confronti delle persone, in maniera tale da poter, probabilmente, anche ritornare ad un’attività globale più fiorente. Proprio perché la gente deve stare anche bene. Quindi, per stare bene, non bisogna necessariamente spezzarsi la schiena 12 ore al giorno. Questa è una cosa inammissibile.
Un'altra cosa potrebbe essere anche il salario minimo...
Un salario minimo, sì. Il salario minimo fino ad arrivare, nei prossimi 30, 40, 50 anni, a una sorta di reddito universale: è una cosa che per molti sembrerebbe utopica, ma per quanto mi riguarda non lo è. Non lo è assolutamente, perché un reddito universale ci permetterebbe probabilmente anche di essere degli uomini, soprattutto, e delle donne anche, migliori. Perché il problema di tante tipologie di persone, di famiglie, di situazioni che accadono, è dovuto soprattutto a una grande ignoranza, a una grande mancanza di cultura della personalità, del comportamento. Perché se tu metti un padre di famiglia a sgombrare dalle 7 del mattino fino alle 8 di sera in una campagna, in una cisterna di un impianto, ti assicuro che quando torna la sera la prima cosa che vuole sentire è solo il silenzio, non vuole sentire nient’altro. Ma se tu ti trovi tre figli, un padre di famiglia, come anche la madre, per me è uguale, è la stessa cosa, ti trovi tutta una serie di cose e non sai neanche come amministrare tutto ciò, perché ti manca la possibilità di passare del tempo a guardare il cielo con tuo figlio. Ti manca la possibilità di aprire un libro e leggerlo per te e per tuo figlio. Anche una favola di Danilo Dolci potrebbe essere già importante per una formazione più elevata della propria esistenza. Ci manca questo, e da lì si giustifica anche tutta una serie di comportamenti diseducativi, proprio perché manca l’educazione, e di tanti poveri figli o figlie che si sono lasciati.

Che resistenza culturale può esercitare un palco come quello dell’Uno Maggio "Libero e Pensante"?
Una resistenza culturale che parte sempre dal basso, ma soprattutto è libera. Libera soprattutto da fazioni partitiche, politiche, libera dalla costrizione di certi modi di fare, come si dice, di politically correct anche per certi versi, che non esiste. Su quel palco non c’è nessuna censura, non c’è nessuna correzione d’impostazione, non c’è nessuno che non si possa permettere di dire quello che vuole dire, a differenza degli altri palchi o a differenza di certe situazioni televisive dove è tutta una continua censura proprio per non andare a pestare i piedi all’imperatore o all’imperatrice di turno. Quindi quello che può fare l’Uno Maggio Libero è dare voce, come dicevo all’inizio, a chi voce non ha.
La musica ha un ruolo politico sul palco di Taranto?
La musica in questo caso serve per amplificare questi messaggi. Questo palco non è una passerella. In questo palco non ammettiamo gente che viene necessariamente a presentare il proprio album o il proprio singolo. Qui vogliamo gente che innanzitutto crede alle cause varie che ci sono su questo palco, che abbia la sensibilità giusta per sentirsi un artista vero, completo, e che abbia sicuramente un grado di intelligenza tale, e di umiltà anche tale, da potersi confrontare tranquillamente con le altre realtà che lo circondano. I camerini sono tutti quanti nello stesso luogo, tutto aperto. Sembra una piccolezza, un dettaglio stupido, ma invece non è proprio così. I musicisti qua non hanno bisogno di paraventi, non hanno bisogno tra di loro. È tutta gente che comunque alla fine si vuole bene, quindi esiste un movimento virtuoso anche nell’ambito della musica. E sempre vediamo col sorriso e anche una lacrimuccia di emozione. Questo palco può fare tanto e lo sta facendo da 15 anni a questa parte, più o meno. Lo sta facendo perché certe cose che sono state dette su questo palco hanno illuminato tante masse di giovani. Qua ci sono migliaia e migliaia di giovani che, quando qualcuno parla su questo palco, non c’è quello che fischia, non c’è quello che si lamenta, ma anzi ci sono degli applausi. Come nel caso della madre di Nick, per dirtene una: un paio di anni fa l’applauso è durato quasi dieci minuti. Cioè, una roba incredibile. E questi applausi arrivano soprattutto dai giovani. Quindi esiste una realtà vera. Il problema è che è soffocata da tutta una serie di censure date dai media, dai giornali. Ma noi questo palco vogliamo che sia, e che rimanga tale. Anzi, sempre di più, come si dice: forte il messaggio lanciato da chi deve salire.
E cosa rischia chi non si adegua, invece, alla censura e al mainstream?
A quello che ho rischiato io tutta la vita, in quasi trent’anni. Ho quarant’anni di musica, però quasi trent’anni dentro questo circo. Quello che rischio io è che, nel momento in cui fai una cosa talmente stravolgente che non puoi assolutamente non parlarne, non hai neanche le copertine. Ma nel momento in cui non ti accodi, non ti vendi, non ti genufletti, non ti inchini… magari sei un po’ messo da parte. Ma comunque non è un rischio che può far male a una persona forte. Probabilmente può fare male a tutta una serie di artisti, quelli che ancora si approcciano a questo mondo da poco e soprattutto che sono giovani, anime fragili e tutta una serie di cose. Quindi rischia il cappottamento, come è accaduto, come abbiamo visto. Abbiamo sentito di notizie varie, di ragazzi con la depressione. Sono delle cose molto tristi.
Hai dovuto difendere la tua libertà?
Io, che sono forte, per quanto possa essere a volte avverso a questo mondo, non è il fatto di non allinearsi al codazzo dei pecoroni. Io so benissimo quello che valgo. Non ho bisogno solo dell’Italia, intendiamoci. L’Italia è uno sputo come mercato rispetto a tutto quello che accade nel mondo. E io, grazie al cielo, da trent’anni giro il mondo in lungo e in largo...

Quindi non hai mai sentito davvero il peso dell’esclusione da certi circuiti?
Non sono vittima di un sistema che ti chiude, che se non sei, come dicevi giustamente tu, allineato, sei fuori dai giochi. Non me ne frega proprio nulla, una ceppa. Anche perché so quello che valgo. Da quello che si dice, sono uno dei migliori, uno dei più esplosivi trombettisti e musicisti del mondo. Che questo non significa sentirsi poi troppo presuntuosi nell’affermarlo, ma nello stesso tempo continuo a pensare che questo qui è un mestiere che mi deve dare da mangiare a me e alle quasi venti persone che con me lavorano a questa cosa a cui sono totalmente devoto: la gente che sta dietro le quinte, che sta davanti sul palco. E questa è la cosa che più mi inorgoglisce, che mi rende veramente un uomo migliore. Il fatto che comunque questa realtà è nostra, è indipendente, e la portiamo avanti. E così come facciamo noi in questa nostra piccola isola, cerchiamo di fare rete con tante altre isole, che non sono solo musicali, ma sono anche quelle fatte di mamme, delle donne del Vesuvio, delle mamme siciliane contro il petrolchimico, sono fatte quelle dei bambini, sono fatte di tante voci. E questa è la più bella colonna sonora che una persona potrebbe vivere durante la vita: il fatto, veramente, della realtà, di quello che accade realmente. Non solamente degli illustrini, dei “volevamo stupirvi con effetti speciali” e colori ultra vivaci, come la pubblicità di tanto tempo fa.
Taranto, ricordiamo, è una città che si può definire "martire" per quanto riguarda il lavoro, dopo che l'Ilva l'ha distrutta e la politica non ha trovato soluzioni. Ma oggi, che città è?
È una città che si sta risollevando, una città che sta tenendo testa, anche se le problematiche sono ancora tante. Non voglio scendere nello specifico sulla questione Ilva, che resta disastrosa e lo si vede ogni giorno. È una situazione di inquinamento grave, ma purtroppo non è l’unica in Italia. Anche nel mio paese, Augusta, vicino Priolo, siamo dentro quello che viene chiamato "il triangolo della morte". Lì si muore ogni giorno per quello che si respira e si tocca. Sono dinamiche che fanno paura anche ai miei stessi familiari, agli stessi lavoratori. Però qualcuno, forse anche grazie al Primo Maggio Taranto, comincia a svegliarsi, a capire che serve una riconversione vera, un nuovo modello. Perché siamo nel 2025, non più negli anni ’50 o ’60, quando il mito industriale prometteva prosperità e lavoro, ma ha portato solo devastazione. Ora si parla di riscatto sociale. Lo dico da non tarantino: questo è uno dei posti più belli d’Italia. Il Golfo di Taranto, visto da ogni angolazione, è uno spettacolo. La storia ci insegna il valore di questi luoghi. Certo, ci vorranno anche 50 anni per bonificare tutto, ma sono 50 anni di lavoro per intere generazioni. È una sfida lunga, ma possibile.
E secondo te, da dove dovrebbe partire davvero questo riscatto di Taranto?
Dal basso, come sempre. Ed è quello che stiamo cercando di fare. Il Primo Maggio Taranto non nasce per competere, ma per offrire un’alternativa vera, per risvegliare coscienze, per dire che si può cambiare se lo si vuole davvero.
Tornando al mainstream: credi che il Concertone di Roma non abbia più l’anima di questa ricorrenza del Primo Maggio, che sia meno libero di denunciare?
Certo! Il Concerto di Roma è stato ormai inglobato e molto censurato. Siamo stati censurati tutti. Anch’io, anni fa, suonavo a Roma, prima di imbarcarmi in questa bellissima avventura a Taranto. Mi sento molto più in linea con lo spirito di Taranto che con quello romano. Senza nulla togliere agli organizzatori, con cui ho rapporti di rispetto, lì è diventata una passerella delle mode del momento, tutta sponsorizzata, con fiumi di denaro. Noi, invece, mettiamo in piedi tutto con la vendita di vino, magliette, donazioni. Eppure il valore che portiamo è più autentico. A Roma il Primo Maggio non parla più del lavoro, delle lotte, dei diritti veri. È un paradosso, e con quel paradosso noi non vogliamo avere nulla a che fare. Siamo nati dal basso, da un’esigenza reale, e lì vogliamo restare.
