Esiste un modo di dire, non di estrema eleganza, certo, capace però di dire una grandissima verità. Questo: se qualcuno te lo sta mettendo in cul* è inutile agitarsi, non faresti altro che procurargli più piacere. Parliamo di musica, e parliamo di streaming. È possibile scrivere un pezzo su Spotify e lo steaming partendo da un incipit che citi Tomasi da Lampedusa? Sì. Eccolo. Tutto cambi perché nulla cambi. Siamo ancora una volta qui. Parlo di Spotify, l’ho già detto. Ma per onor di cronaca toccherebbe per una volta parlare di chi in questo caso è stato uovo e gallina, scintilla che ha acceso questa nuova rivoluzione tutta interna allo straming, Deezer. Non solo di Deezer, quindi, ma andiamo avanti un passo alla volta. Partiamo da qui. Artist Centric. Dietro un nome che potrebbe suonare quasi esotico, che pone appunto l’artista al centro dell’attenzione, si nasconde quella che ormai è certo sarà la prossima rivoluzione nel mondo della musica digitale, leggi alla voce streaming. A lanciare questa iniziativa Universal Music Group, principale major nel campo della musica, è stata appunto Deezer, piattaforma di streaming francese (quindi, come un po’ tutte le “cose” francesi, rivolta più che altro al proprio mercato interno). Questa l’idea che le due aziende hanno messo a puntino, cambiare le regole dello streaming, prima a partire dalla Francia, casa base di entrambe, per poi estendere il tutto al resto del mondo. Come detto, questo Deezer non se l’è detto, fuori dai confini francesi è irrilevante, ma la Universal, invece, sì, è la principale major della discografia, al momento. In sostanza, Artist Centric vuole porre l’artista al centro, questo hanno dichiarato a gran voce, senza ovviamente che nessuno credesse loro, Edoardo Bennato parlava del Gatto e la Volpe, guardando alla discografia, già nel 1977, adottando quello che tecnicamente è defintio double boost, doppia spinta. In cosa consiste? Come tutte le situazioni che si nascondono dietro un nome straniero, che suona anche vagamente cool, è ovviamente una grande fregatura. Primo step, vengono considerati artisti professionisti coloro che hanno almeno mille stream al mese e cinquecento ascoltatori unici, sempre al mese. Nel loro caso gli stream valgono il doppio degli altri.
Secondo step. Gli ascolti che derivino da ricerche specifiche, e non da playlist o scelte dell’algoritmo valgono a loro volta il doppio degli altri, essendo considerati un segnale chiaro di ascolto attivo e non passivo. Al contempo viene operata la rimozione forzata degli ascolti considerati fraudolenti e, attenzione, non musicali. Avete letto tutti la storia del cantautore Francesco Sacco, spero, e se non l’avete letta leggetela, la trovate qui, ma ipotizzare una correlazione tra il suo allontanamento dalla Believe, che per altro come distributore già non fa pagamenti agli artisti che producano introiti inferiori a 50 euro mensili (ma attende che vengano superati prima di pagarli, rimborsando però chi non li raggiunge e rescinde il contratto) proprio per una presunta frode a suon di stream fake, lui che ha numeri decisamente più bassi dei pacchetti di stream che dicono avrebbe comprato e il contemporaneo cambio di rotta anche da parte di Spotify, spoiler, qualcosa ci dice, perché a breve tutti i “piccoli” - parlo di numeri - artisti non avranno più senso dentro distributori e etichette, considerati più uno spreco di energie che una fonte di un qualche guadagno. Ritorno al secondo step, quindi, gli ascolti che derivino da ricerche specifiche, e non da playlist o scelte dell’algoritmo valgono a loro volta il doppio degli altri, essendo considerati un segnale chiaro di ascolto attivo e non passivo. Al contempo viene operata la rimozione forzata degli ascolti considerati fraudolenti e, attenzione, non musicali. Ecco. Sappiamo tutti come spesso nelle piattaforme impazzino audio che non sono musicali, dal rumore degli elettrodomestici, quelli dell’acqua che scorre, quelli del canto delle balene, tutti piuttosto popolari per chi cerca, per dire, una via alternativa ai sonniferi. Bene, dal 2024, perché da inizio 2024 le “variazioni Deezer” verranno adottate anche da Spotify, continueranno ancora a trovarsi sia qui che lì, ma non matureranno royalities come invece le canzoni, nel caso dei professionisti addirittura con doppia valenza. Tutto bene, si potrebbe pensare. Perché finalmente gli artisti avranno modo di essere pagati il giusto da un sistema che fin qui ha premiato quasi esclusivamente le major e le piattaforme, penalizzandoli. Dare a Cesare quel che è di Cesare, ricorrendo agli antichi. Sì, e domani è festa. Questo nuovo meccanismo, infatti, ripetiamo, a oggi adottato solo in Francia da Universal e Deezer, ma adottato in tutto il mondo da Spotify, leader di settore, a partire dal 2024, premia in realtà solo una certa tipologia di artisti, presumibilmente proprio quelli che nelle major, Universal è regina del settore, hanno trovato casa.
I professionisti, oggi con mille ascolti e cinquecento ascoltatori unici, domani magari con standard più elevati, beneficiamo del mercato, gli altri no. Un po’ come per i dividendi Siae, che si vedono riconoscere la spartizione delle quote dei soci che non arrivano a maturarne abbastanza. Un modo certo per premiare chi è professionista e non hobbista, e ci sta, ma che al tempo stesso è un vero disincentivo per chi si avvicina a questo settore, gli emergenti, come per gli indipendenti, che sicuramente hanno meno visibilità e quindi meno possibilità di farsi ascoltare, per non dire di chi pratica, magari da professionista, un genere particolarmente di nicchia. Penso alla piattaforma proprio acquisita da Believe, che comunque è pur sempre una multinazionale, TuneCore, che permette a artisti sconosciuti di caricare la propria musica, dopo aver sottoscritto un abbonamento abbordabile, proprio al fine di testare sul mercato il proprio repertorio. Stando a quanto comunicato da Spotify, poco più del 10% degli utenti che pubblicano sul colosso svedese dello streaming, circa ottocentomila artisti su oltre otto milioni complessivi presenti, rientrerebbe tra detti professionisti, cinquecento ascoltatori unici e mille streams al mese, non esattamente numeroni. Il fatto che a muoversi su questo fronte sia stata sì una realtà piccola come Deezer, ma affiancata dal colosso della discografia Universal, e che ora ci si sia fiondata con le scarpe e tutto anche Spotify segna indelebilmente il cammino che la discografia ha evidentemente intrapreso. Una sorta di ritorno al passato, quando cioè la musica non era affatto cosa per tutti, ma solo per un numero ristretto di persone, però con l’aggravante che oggi la discografia stessa sembra non essere più intenzionata a investire sui giovani talenti, fin qui presi quando già avevano numeri sufficienti per avere successo. Sul fatto che milioni di artisti, penso a tutti quelli che caricano brani sulle varie piattaforme, vedranno sparire dal web le proprie opere, con quel click che è da solo in grado di azzerare tutto, rende questa situazione davvero apocalittica, Jena Plissken pronto a staccare la spina al mondo per come lo conosciamo. O magari no, quegli artisti resteranno su Spotify e affini, ma senza fare un euro per le proprie canzoni, e ancora una volta il mondo dello streaming, quello che sostiene in maniera effimera un mercato che nei fatti poggia tutto sulla creatività di artisti che quasi mai vengono ripagati adeguatamente per il loro lavoro, finirà per ripagarsi, a spese dei tanti utenti che rimarranno a bocca asciutta. Certo qualcuno protesterà, alzerà la voce, si dibatterà, ma torniamo all’elegante incipit di questo articolo, non sempre dibattersi porta a risultati piacevoli. Questo almeno finché non ci sarà una controrivoluzione, quando cioè chi è tenuto costantemente a bordo campo non si ribellerà, staccandosi definitivamente e andando magari a costruirsi una alternativa reale, non solo di facciata, per dirla con parole loro, una realtà che ponga l’artista al centro. Tutto cambi perché nulla cambi. Quindi. Ma volendo, abbassando il tiro, gira gira il cetriolo, finisce sempre in cul* all’ortolano, sempre per usare detti popolari che portano sempre alla medesima condizione. Quella non credo sia farina del sacco di Tomasi di Lampedusa, ma sicuramente anche lui avrebbe approvato la chiosa.