Nel nome del padre, della figlia. O del figl* e chi si è visto si è visto, su quel palco all’Hollywood Bowl, sabato 2 agosto. Si tratta del remake di Jesus Christ Superstar. Giuda è interpretato da Adam Lambert, per un certo periodo il chiodo fisso, musicalmente parlando, di Brian May, che lo ha voluto, a partire dal 2011, come voce dei Queen. Ma a tradire, almeno le aspettative, è stata Gesù di Nazareth, o Crista per gli amici. La polemica c’era già stata, ora si sposta sul palco. Cynthia Erivo è una versione più scura e più donna (e più pelata) di Gesù, in una combo che farebbe impallidire qualsiasi woke-washing che si è visto di recente. Il problema è che sul palco, quella voce pazzesca, come quella di Lambert, per un momento fanno dimenticare le critiche, mentre la storia e i personaggi te li dimentichi da subito, non vedendo, quel barbone di Gesù in scena, ma una donna che si accosta a Adam Lambert con le unghie di Nosferatu e il septum sul naso.
Siamo sulla stessa lunghezza d’onda dell’ultima cena di Parigi 2024, quando alle Olimpiadi scelsero di riadattare un episodio cruciale della Pasqua cattolica in versione queer. Di variazioni sceme se ne vedono sempre e un musical americano si presta particolarmente bene a qualsiasi tipo di cambiamento, anche perché, appunto, non stiamo parlando di una processione in piazza San Pietro e basta non pagare evitarsi lo spettacolo (e l’eventuale incazzatura). A stupire è la necessità commerciale di fare una cosa del genere. Che Erivo fosse bravissima lo avevamo capito in un’altra produzione francamente incensata un po’ troppo, e cioè Wicked. E merita, chiaramente, di avere una carriera incredibile. Ma come Gesù? La procedura woke che si sta normalizzando, tra attori neri che fanno personaggi bianchi, donne che interpretano Cristo e così via, sembra simile a quella dei castrati a teatro, quando il pregiudizio era però antifemminile e sul palco si vedevano solo attori uomini. Ora, pur di apportare un contributo al dibattito morale più immorale del nostro tempo, c’è chi ha bisogno di un Cristo (figura che dell’identità ha fatto una battaglia rivoluzionaria: dal “figlio di Dio” al “figlio dell’uomo”, da “buon pastore” al tautologico, poiché sempre vero, “Io sono colui che sono”) queer, antropologicamente inconcluso, fluido, ballerino. Appropriato, visto che parliamo di musical, meno appropriato se guardiamo al dibattito che si è inevitabilmente creato e che, si potrebbe dire, è stato pilotato dalla produzione dello spettacolo.
