So che adesso arriverà qualcuno a accusarmi di antitalianismo, che tirerà cioè fuori il fatto che è palese che io non abbia provato fremiti per la vittoria agli Europei della Nazionale Italiana, già il fatto che io non abbia detto “la nostra Nazionale” potrebbe essere usato come prova, ancora di più il fatto che io non abbia usato espressioni quali “i nostri ragazzi”, per non dire “i nostri eroi”. A nulla varrebbe il mio criticare proprio quella retorica pelosa che vuole lo sport dei professionisti depauperato di ogni possibile simbolismo, mica è un caso che ho quasi sempre usato l’antipatia personale per l’ex sampdoriano e jesino Mancini come scusa, io genoano di Ancona, sicuramente qualcuno arriverà e mi accuserà di essere uno che mentre, per dirla con Zucchero, “l’Italia è in festa e io sono giù”. Peggio, arriverà qualcuno, magari di Magenta, o di Santarcangelo di Romagna a usare il verbo “rosicare”, così, a cazzo, senza essere autorizzato a farlo, in quanto romano, e dando adito più che altro a quella deriva tutta berlusconiana, parlo del berlusconismo anni Novanta, sia chiaro, siamo nel campo del vintage, della retromania di reyonldsiana memoria, quell’atteggiamento atto a stimolare l’invidia sociale che ha portato non solo il Cavaliere a guidare la nazione, dopo averla “aggiustata”, ma a diffondere come un virus, in epoca pre-pandemica, dando quindi agio a gente che nulla aveva e nulla aveva fatto tale da indurre invidia a comportarsi alla medesima maniera, uccidendo il senso critico, definitivamente.
A poco varrà il mio far notare che no, non è solo amore, in effetti di amore si tratta, per la terra d’Albione, in fondo la moglie di uno è italiana, moglie divenuta tale nella stessa Italia, per altro, in Sicilia si è tenuto il matrimonio, l’altro vive da anni alle falde dei Monti Sibillini, nella terra mia e di Mancio, è proprio e solo una questione di onestà intellettuale, quella forma di dovere insito dentro di noi da che Kant ce lo ha fatto notare, le stelle ce le aveva già fermate su carta l’altro mio compaesano noto nel mondo, un po’ meno di Mancini, Leopardi Giacono, lo si vede spesso nel piccolo supermercato del piccolo paesino che ha scelto come buen retiro, Monsanpietro Morico, lì con le buste di plastica scampate ai Venerdì per la Libertà di Greta Thumberg, come solo nella periferia della provincia è ancora possibile, lo sguardo sperso di chi, nonostante tutto, ancora non si capacita di come anche in queste lande non spopoli il porridge. Arriverà qualcuno e mi dirà che sono antitaliano, che odio i miei compatrioti a favore di un gruppetto di inglesi, che voglio rovinare la festa, festa che nei fatti a me sembra più simile al tentativo violento di stuprare un cadavere, non basta aver vinto, dobbiamo anche dimostrare la nostra superiorità morale, più che sportiva, e vai di medaglie sfilate, di fischi all’Inno di Mameli, inno che, diciamolo, rispetto a God Save the Queen è una cagata pazzesca, parlo di musica, mica è un caso che la tifoseria della squadra di calcio della mia città, da poco tornata tra i professionisti grazie a una mossa da mago delle finanze, l’Ancona-Matelica nata da poche ore per atto notarile e iscritta d’ufficio alla Serie C, ha come inno non ufficiale un brano che recita sulle note dell’inno inglese qualcosa che suona come “c’avemo i moscioli, c’avemo i moscioli, c’avemo i moscioli, e ce piace il vì”, dove i moscioli sono le cozze che crescono nel mare ombreggiato del Conero e il vì è ovviamente il vino, da oggi immagino il Verdicchio di Matelica, in barba al più blasonato Verdicchio dei Castelli di Jesi, sempre la Jesi di Federico II di Svevia e di Roberto Mancini. Inutile provare a abbozzare i fischi fatti all’inno argentino nei Mondiali ‘90, l’”hijos de puta” di Maradona entrato negli annali, o le medaglie sfilati da tanti nostri, sì, ci sono cascato anche io, nostri campioncini, da Insigne a Totti, passando per Barella, nome che a breve tornerà protagonista, non farei che peggiorare la mia situazione, dimostrare che sono colpevole. Tanto meglio, quindi, alzare le mani e invocare una resa incondizionata, poco conta la mia evidente e lontanissima parentela con Stamira di Ancona, popolana a respingere un altro Federico di Svevia, mi arrendo, avete vinto voi.
Il fatto è che non ce la faccio proprio, è più forte di me, devo dirlo. Sono ore, giorni, ormai, che vi vedo esultare anche per i dettagli infinitesimali, quelli altrimenti archiviabili come marginali. Uno mi ha colpito, confesso, mi ha fatto sorridere, perché come tutti anche io ho fatto un mio ingresso a un qualche pranzo di famiglia dopo una serata e una nottata brava tra amici, indossando improbabili occhiali da sole, malcelando un hangover non riconosciuto come tale solo per inesperienza dai parenti più anziani, Barella con shottino e occhiali da sole sull’autobus scoperto della Nazionale, quello che ha così scandalizzato per il suo fottersene degli assembramenti che non avrebbe che potuto causare. Da che quell’immagine è apparsa Barella è entrato in trend topic, legittimamente, tutti a dire, anche io come lui, voglio Barella al mio matrimonio, viva l’hangover di Barella. Tutto simpaticissimo. Tutto comprensibile. Tutto bellissimo. Ma, faccio appunto notare, ce ne fosse stato uno, dico uno che, parlando di hangover, di ubriacarsi senza ritegno sotto gli occhi di tutti, gesto tale da farci dire “Barella, uno di noi”, abbia guardato a chi, nel mentre, quell’attitudine l’ha elevata a opera d’arte, fermata nel campo delle opere, immessa nel mercato, andando ben oltre Barella, perché Barella se la potrebbe vedere con lui solo se un giorno si presentasse in campo in hangover con occhiali da sole e shottino a giocare una finale di Champions, sempre che mai arrivi a giocarne una. Sto ovviamente parlando, i titoli rovinano spesso le narrazioni, specie quelle costruite in maniera complicata, come la mia, il mio reiterare l’oggetto del mio storytelling sputtanato anche dalla foto di copertina, della cover di Creep che Thom Yorke e i suoi Radiohead hanno deciso di rilasciare (uso appositamente un orribile verbo che è la traduzione sbagliata del corrispettivo inglese, hai voglia a prendere le distanze dall’Inghilterra, ne siamo colonia da sempre) proprio in queste ore. Una cover che è uscita a nome del cantante, la band compare come featuring, e che è decisamente la plastica figura di uno che si mette a cantare dopo aver finito le scorte di magazzino di Sambuca, bevuta ovviamente a stomaco vuoto, con gli amici che invece che a fermalo stan lì a incitarlo. Una versione slabbratissima, giusto una mano di elettronica, a occhio fatta con un Vic 20 trovato da un rigattiere, cantata davvero come noi faremmo con le osterie alla Festa delle Porte di Gualdo Tadino, in attesa che arrivi il treno in quell’ora buca che una volta l’anno compare tra le due e le tre, nel momento di passaggio tra ora solare e ora legale. Una roba che, non fossimo tutti da sempre affascinati dai disastri, James Ballard ci ha fatto su della bella grana, dovrebbe farci inorridire, e invece non possiamo smettere di ascoltare, aspettando un ritornello che sembra non arrivare mai, privo della potenza iniziale, rarissimo caso di artisti che vogliono uccidere le proprie opere, altro che Banksy che tritura i suoi disegni messi all’asta.
Ecco, io ve lo dico, se siete tra quelli che si stanno infoiando per l’hangover di Barella e avete un minimo di senso di onestà intellettuale non potete che mettervi in adorazione di Thom Yorke, uno che dell’hangover ha fatto un momento focale della sua carriera.
Anche in questo, temo, abbiamo da imparare dagli inglesi, facciamocene una ragione.