Mettetevi scomodi. Quando ero un bambino, prima, un ragazzino, poi, nella mia città natale c’era un tipo bizzarro che tutti chiamavano Zorro. Sì, Zorro, come Don Diego de la Vega, eroe molto amato da noi bambini, chi è nato negli anni Sessanta e forse anche nei Settanta non può non aver indossato almeno una volta a carnevale il caratteristico costume nero, con camicia bianca, benda sugli occhi e cappello a larghe falde, la spada di plastica in mano pronta a fare zeta per aria, segno che Zorro, quello vero, quello che vedevamo in televisione, faceva come sua firma sulle divise degli odiati soldati messicani, sergente Garcia in testa. Zorro, il tipo bizzarro che viveva nella mia città, era un pazzo, così lo definivano tutti allora, o forse un matto, non ho mai capito bene la differenza tra queste due parole, oggi messe al bando. Girava con una bicicletta, una vecchia Graziella, accompagnandola a sé tenendo il manubrio in mano, senza mai salirci in sella. Suonava spesso una trombetta di plastica, di quelle che se le premi svuotano l’aria facendo un suono acuto, salvo poi riempirsi di nuovo attraverso una valvola una volta aperta la mano, e questo era il modo per avvisarci che stava arrivando. Era un matto, e in città ce n’erano altri, tutti noti, ma era anche un matto un po’ molesto. Se lo guardavi, e difficilmente potevi non guardare un tizio che girasse portando a spasso una bici, come fosse un cane da far pisciare, i capelli radi su una testa irregolare, un paio di occhiali con la montatura spessa, tenuti insieme dallo scotch, lì dove la montatura poggia sul naso, se lo guardavi ti imprecava contro, minacciava anche di inseguirti, pur essendo il tutto impossibile, perché la bici non la mollava mai, forse per paura che gliela rubassero. Era Zorro, e il fatto che avesse scelto quel nome, perché era stato lui a dire di essere Zorro, non era il classico soprannome che in provincia si è soliti dare a chiunque, oggi mi lascia pensare, a breve spiego perché. Capitava spesso di incontrarlo per corso Mazzini, uno dei tre corsi paralleli della mia città, quello che per primo l’amministrazione ha lasciato al passeggio, caratterizzato per la presenza di bancarelle tutto l’anno, tutti i giorni. I bancarellari lo prendevano in giro, facendolo bestemmiare, ma era una cosa bonaria, questo lo potevo capire anche da bambino.
Come lui c’era Umbertì, il barbone si dice ricchissimo che viveva sotto la Galleria Dorica, tutto sdentato e puzzolente, sempre a chiedere una sigaretta a chiunque. C’era Dido Dado, anche lui sempre in giro in bicicletta, alto quasi due metri, i fianchi larghissimi e una testa microscopica, così chiamato perché tartagliava e ogni cosa dicesse sembrava fosse “dido dado”. C’era Gattì, anche lui pazzo, lì a dormire nelle casette del parco di VillaRey, dove oggi si trova la facoltà di Economia della Politecnica delle Marche. C’era Birbacciò, obeso, così chiamato perché era solito importunare le signore. E c’era una tizia, di cui non ricordo il nome, enorme, gigantesca, sempre vestita e truccata in modo eccentrico, che era solita entrare in chiesta e farsi il bidet con l’acqua santa presa direttamente con le mani a coppa dall’acquasantiera. Anche Zorro entrava in chiesa, quella dedicata ai Santi Cosma e Damiano, per tutti San Cosma, in particolare. Entrava nel bel mezzo della messa, di qualsiasi messa, si fermava a un passo dalla porta, San Cosma come tutte le chiese ha una porta di legno che fa da filtro con la porta esterna, ne ho vista una uguale nella casa museo di Dalla, a proposito di eccentrici, a Bologna. Zorro entrava e bestemmiando gridava: “Tutti bravi in chiesa, eh. Tutti bravi”. Poi, conquistata l’attenzione di tutti, in un silenzio che si sarebbe potuto vedere a occhio nudo, si voltava e usciva, immagino la bici ad attenderlo sotto le scale. Zorro, quello vero, si fa per dire, era un vendicatore mascherato, un giustiziere che in qualche modo è stato un prototipo per i supereroi, anche lui con il volto coperto, il mantello e una doppia vita. Zorro, il tizio della mia città, era una sorta di Cassandra che gridava contro le ipocrisie di chi la domenica andava alla messa. Unico momento di lucidità in una esistenza apparentemente squinternata, forse però una sorta di Diogene contemporaneo, la bicicletta al posto della botte.
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Nella postfazione Camillo Langone (scherzando spero) addita l’autore di aver peccato di ira e di lussuria ma RESISTENZA INTELLETTUALE non è l’ennesima e vana, per quanto puntale, critica alla società o all'inerzia della politica, che elenca e cerca di mettere in luce problemi che abbiamo tutti davanti agli occhi, è un grido nelle orecchie per vedere se c’è ancora qualcuno, se le teste sono abitate…un atto di fiducia, un atto folle nella speranza di risvegliare l’umano nell’uomo… che ci richiama alla vita, quella unica e fragile che grida per farsi sentire! Ascoltate il libro, non leggetelo… lo ripete più volte Moreno Pisto: “ASCOLTATE!”
Sempre in quegli anni, quando ero ragazzino più che bambino, quando cioè cominciavo a muovere i primi passi come chitarrista in band locali, spesso dedite al rock se non addirittura al punk hardcore, covavo un segreto amore per le canzoni di Claudio Baglioni. A spingermi verso l’ascolto del cantautore romano era stata mia sorella Caterina, sua grande fan. Lei, sei anni più di me, ascoltava in continuazione le sue canzoni, e per me era stato facile impararle a memoria. Una volta che mia sorella, giovane, si era sposata, e io avevo cambiato casa, mi era toccata in sorte una vicina altrettanto fan di Baglioni. Lei abitava sotto casa mia, e le nostre camere erano una sopra l’altra. Non so se fosse il volume del suo stereo o la sottigliezza dei soffitti, nei fatti tutti i pomeriggi sentivo La vita è adesso, l’album di quel periodo, alternato a Strada Facendo, suo predecessore giusto intramezzato dal doppio live Alè-oò. C’erano un sacco di canzoni assai belle, in quei due album, alcune delle quali saprei ancora oggi cantare a memoria. Il fatto, incidentalmente, che io sia stato una spina nel fianco nei suoi Festival di Sanremo, con le polemiche fatte con Striscia la Notizia e Dagospia, ha reso per me il tutto surreale, l’ho sempre ammirato e ancora l’ammiro. Comunque, tornando a quel che sto raccontando, cioè recensendo un libro, in quei due album c’erano due canzoni che mi facevano impazzire, esattamente per i motivi per cui impazzisco ancora oggi, dettagli apparentemente irrilevanti. Erano Ora che ho te, da Strada facendo, e Tutto il calcio minuto per minuto. Volendo avrei potuto includere nel discorso Notte di note, note di notte, ma nei fatti impazzivo di più per quelle due canzoni lì. Il dettaglio irrilevante che mi mandava fuori di testa era un acuto tenuto per molti secondi. Ora che ho te è una ballad romantica, vagamente disperata come buona parte del repertorio di Baglioni dell’epoca. Il nostro canta di un incontro romantico e lo descrive con trasporto, Ora che ho te, appunto, dice già molto. Il tutto su una musica appoggiata su un giro di pianoforte, un basso avvolgente a fare da controcanto, a metà un bell’assolo di chitarra elettrica, dolente e sentimentale. Tutto molto bello, salvo che poi sul finale, proprio dopo l’acuto, viene fuori che lei avrà sempre il medesimo sorriso, il medesimo cuore anche quando non ci sarà più lui, Baglioni, perché ogni incontro è già un addio.
L’acuto, sostenuto da un riff duro di chitarra, dura venti secondi e sessantacinque millesimi, e prosegue, struggente e sabbioso, proprio con questo riferimento all’addio. Tutto il calcio minuto per minuto, con La vita è adesso Baglioni avrebbe fatto un passo in direzione di una scrittura di testi ancora più spericolata, scrittura che avrebbe poi trovato il suo apice in Oltre, Tutto il calcio minuto per minuto, titolo che evoca il popolare programma della radio Rai che ci raccontava il campionato di calcio quando le partite si giocavano tutte in contemporanea la domenica e per vederle toccava andare allo stadio, è uno spaccato quotidiano, poetico, malinconico, a tratti struggente. Un controcampo tra due ragazzi, che crescono lungo il corso della canzone. Un modo originale di raccontare una storia, per quadri. Un crescendo lento, dove la voce del nostro ha modo di giocare non poco col suo tipico timbro romano, quello che Tosca chiamerebbe “barcarola”. Una canzone considerata incomprensibilmente minore, forse per la presenza in quell’album di così tante bellissime canzoni, che ha il suo apice, e come sarebbe mai potuto essere altrimenti, nell’acuto finale. Un acuto costruito sul titolo del brano, cui si arriva su note altissime, prese da Baglioni con una rara maestria. Un acuto che dura, attenzione, che parte con questa frase: “E due a due vanno via, in un’aria tagliente a vetrini, di un pomeriggio nudo, le radio dietro alle persiane e tutto il calcio minuto per minuto”, quella o sostenuta per ventotto secondi, mentre gli archi, sotto, intessono una trama quasi tragica, basso e batteria a contrappuntare il tutto. Ventotto secondi di acuto, signori miei. Ho passato interi pomeriggi a fare queste prove di apnea, chiamiamole così, cantando a squarciagola steso sul letto, mentre la mia vicina sparava la canzone dal suo stereo, arrivando a farmi i polmoni, pur non avendo mai imparato a usare bene il diaframma.
Ecco, qualcuno, immagino, si starà chiedendo cosa c’entrino un tizio pazzo di nome Zorro o i due acuti di Claudio Baglioni con Resistenza intellettuale, libro invettiva scritto dal direttore di MOW, Moreno Pisto (Nfc editore, 2024). Se lo chiederà, e forse fa anche bene a chiederselo. Il fatto è che leggendo le frammentarie pagine di questo pamphlet, dove si passa agilmente dal San Francesco di Hesse a Odio gli indifferenti di Gramsci, immagine aulica, la prima, pop come il “senza perdere la tenerezza” di Che Guevara dei poster della Feltrinelli, la seconda, di intelligenza artificiale e futuro prossimo, di Tolstoij come di Vasco, lì a gridarci il suo “sveglia”, Diogene assai poco cinico, tirando per la giacchetta il nostro futuro sotto il cappello del lucidismo, movimento di resistenza culturale uscito in uno dei momenti più ignoranti di sempre, il fatto è che leggendo le frammentarie pagine di Moreno Pisto a me è venuto in mente Zorro, lì a entrare in chiesa mettendo tutti di fronte alle proprie ipocrisie, ma è venuto in mente anche Baglioni, a tenere note acute per tempi inumani, la precisa volontà di essere autorevole e autoriale, Baglioni e Pisto, ma anche estremamente pop, quindi intellegibile da chiunque sia disposto a sentire. Ecco, Moreno Pisto è uno Zorro che per dirci che siamo forse all’ultimo giro invece di gridare canta, e canta con voce stentorea, mica in falsetto. Se io ora volessi spiegarvi cos’è il Lucidismo, di questo parla Pisto per tutto il libro, e ne parla in capitoli brevi, veloci, con quel continuo agognare un ritorno dei filosofi, proprio come il pazzo di The Beach di Garland che a un certo punto, di colpo, tira in ballo, ecco, se io volessi farlo vi priverei di un piacere, perché leggere è un piacere, e leggere un libro ben scritto lo è due volte, fare un bignami di un grido di dolore e di una chiamata alle armi sarebbe comunque tanto avvilente quanto impossibile, spolier, il passaggio nel quale ci regala i suoi dati anagrafici nel caso, scesi in piazza per proclamare la nostra adesione al lucidismo e la nostra strenua volontà di resistere all’abbruttimento che ci sta avvolgendo, la questura ci fermasse, è uno dei momenti più lucidi di un libro lucidissimo, quasi riflettente. Tra una citazione di Heidegger e una di Nietzsche (che dice?), lavorando per affastellamento di pensieri e di stimoli, con la medesima modalità cui ci siamo oggi abituati, quella del passaggio di link in link, Pisto si dimostra non solo free, come è solito sottolineare, rispetto ai canoni di chi si muove dentro l’editoria, ma anche abbastanza folle da essere credibile mentre veste i panni, gli stracci forse, di un Thoreau che invita a una sorta di guerriglia praticata con l’eremitismo, da intendersi letteralmente come letterariamente. Zorro, ripeto, dove la chiesa è il mondo social, capitalistico, nel quale ci si muove oggi, ma dove quel lato romantico, baglioniano, fuga ogni tentazione nichilista, alla Mark Fisher. Sempre e comunque postmoderno, salvo sostituire la risata dell’ironia con l’invettiva tout-court. A un certo punto, non faccio altro spoiler, Pisto cita Shackleton, ecco, Resistenza intellettuale è un invito a una rivoluzione, anche a costo di ritrovarsi a mangiare carne di pinguino. Il lucidismo è una operazione Space Monkey, capirete bene perché io ora non voglia star qui a dire altro. Moreno Pisto è Zorro. Pisto è Zorro che con un acuto di oltre ventotto secondi ci dice di ribellarci. A me, credo, il pinguino farebbe cagare, quindi aspetterò dopopranzo, ma ci sto pensando seriamente.