È uscito Resistenza intellettuale (Nfc 2024), il manifesto del direttore di MOW Moreno Pisto. Il pensiero, per come è sempre stato inteso, è arrivato alla fine della sua era. Cambia tutto. Siamo sempre più automatizzati e arriveremo a smettere di pensare. La Cina? Ormai è un modello anche per l’Occidente. Il tracciamento è sempre più pervasivo e lo sviluppo tecnologico ci impone di cambiare il nostro concetto di libertà. Quello che sta succedendo è inevitabile, per questo è necessario pensare, scrivere, fare arte, ma anche disertare, per non essere mai incasellabili nei cluster, per non essere mai solo un dato. Ecco a cosa servono i pensatori lucidisti. Ne abbiamo parlato con il nostro direttore.
Iniziamo da una citazione del libro che ho in testa da qualche giorno: “La reputazione è un problema per giganti o uomini mediocri”. Quando hai iniziato a scrivere Resistenza intellettuale che impatto hai pensato avrebbe avuto questo libro-manifesto sulla tua reputazione?
Ti direi che della reputazione non me ne frega un caz*o. Tutti noi commentiamo l’attualità, tutti noi ci rendiamo conto, lavorando nel sistema dei media, di come possano nascere delle notizie o come possiamo far nascere delle notizie che, anche se palesemente false, condizionano il dibattito pubblico. Da un punto di vista mediatico siamo tutti vittime delle propagande, a partire dal Covid, poi c’è stata la guerra in Ucraina, la guerra in Palestina, c’è stata tutta una serie di crisi dove, tramite i social, eri portato a schierarti o da una parte o dall’altra, perché l’opposizione faceva fare engagement, ti faceva fare nuovi follower, mentre magari se tu avevi e hai un atteggiamento che non è decifrabile, perché pensi in maniera indipendente, cerchi di non appartenere a nessuna delle vulgate presenti e cerchi di mantenere un pensiero nemmeno laterale ma, appunto, lucido, giocoforza tu provi a essere neutro, cerchi di avere una tua verità. Da questo punto di vista, mi sono reso conto che in Italia c’erano pochi personaggi che cercavano di avere una lucidità di pensiero. E mi sono accorto che in passato i personaggi portatori di un pensiero lucido sono sempre stati combattuti dal sistema. E io li cito come pensatori lucidisti prima che il termine lucidismo venisse coniato. Quindi non mi sono posto il problema della reputazione. Puoi passare per cretino tutta una vita e poi magari le cose possono cambiare. Magari volevi fare il pittore come Modigliani, che quando passava Picasso si toccava i coglioni, o come Van Gogh, che cito nel libro, un malato, un emarginato, che però è sempre stato quel pittore che conosciamo oggi, anche senza riconoscimento. Pensando al giudizio degli altri ti limiti e rischi di non fare qualcosa che magari ti senti davvero. Io questo libro, questa resistenza, questo lucidismo, me lo sono sentito. E basta, questo è sufficiente.
Nel libro parli di un problema culturale, di una crisi epocale. Quando è iniziata secondo te?
Non riesco a individuare un inizio. C’è chi dice che in Italia è tutto degenerato con il berlusconismo; Vittorio Sgarbi, se leggi un suo libro di molti anni fa, Le regole dell’arte, dice che tutto è iniziato con la pop art, con Andy Wharol, se leggi Nietzsche tutto dovrebbe essere iniziato probabilmente con l’Impero Romano. Se senti Galimberti ti dice che il male totale è iniziato col cristianesimo, che è la religione più individualista che ci sia. Da dove è iniziato non saprei neanche dirlo. Ma per quello che vedo io, sono del 1979, c’è stato un degenero dei costumi, ma anche questo è figlio del tempo che cambia, quindi non gli do particolare responsabilità. Quello che dico nel libro, però, è che questo degrado culturale abbinato allo sviluppo tecnologico, che rende possibile tracciarci sempre di più, monitorarci sempre di più, (come ho visto in Cina, addirittura si passa dal controllo all’influenzare i comportamenti), ecco, questa combinazione ci fa capire che esistono degli strumenti sempre più efficaci per sopprimere il dissenso, per veicolare la mente delle persone. Strumenti che possono addirittura anticipare la creazione di bisogni. Stiamo diventando sempre più pigri, sempre meno inclini al dissenso. In Italia si vede molto, ma se vai in Cina o in America te ne rendi conto in modo ancora più evidente. Il problema è che adesso chi si ribella ha molta più difficoltà di rendersene conto, di aggregare persone, di comunicarlo, perché anche la diffusione delle nostre idee è in mano a piattaforme esterne. Quindi, se tu hai un’idea che non viene premiata dall’algoritmo, allora non ci sei, non sei visibile. Così ci perdiamo un sacco di cose. Kafka diceva “quante cose non succedono in questo mondo”, una frase allucinante. Pensa quante opinioni non conosciamo per via dei meccanismi di selezione dei social. Ho letto un libro, che si chiama Narcotopia, in cui il protagonista in uno stato non riconosciuto all’interno della Birmania, Wha, cerca di fare di tutto per debellare la coltivazione dell’oppio, che è la maggiore fonte di entrate di questo narcostato; e questo personaggio viene incolpato di anticonformismo. Ecco, non penso che arriveremo ad avere un capo di accusa di anticonformismo nei libri di diritto, ma di base questo capo di accusa esiste già: nel socialismo, cioè il tribunale dei social, di fatto c’è già.
Una cosa che invece non fai mai è parlare direttamente di politici, anche se il tuo è anche un libro politico. Cos’è diventata la politica istituzionale in Italia?
Non ci sono dei nomi perché parlo di atteggiamenti macropolitici, non parlo del quotidiano. Del quotidiano ne parlo nei miei editoriali. Mi ero chiesto, all’inizio, se inserire anche i miei editoriali per far capire con degli esempi quanto stavo dicendo; e poi mi son detto no, che ridurrei il libro a qualcosa che è più terra terra, invece nel libro inquadro dei macropericoli, dei macrorischi a cui non possiamo che rispondere con delle microsalvezze. La bella notizia e la brutta notizia coincidono: è inevitabile che ci sarà un controllo, un tracciamento, una manipolazione sempre più pervasive. È inevitabile che la grammatica del dissenso e il pensiero cambino e già ne stiamo vedendo gli effetti.
Che ruolo hanno gli influencer nella società di oggi? Per alcuni sono i “nuovi intellettuali” (e molti influencer in effetti parlano quasi esclusivamente di diritti, battaglie politiche e così via).
Faccio fatica a rispondere a questa domanda perché non saprei neanche definire cos’è un influencer. Le persone che io prendo come riferimento possono essere definite degli influencer? Tecnicamente chiunque può essere un influencer. Io non ce la faccio. Li chiamo scrittori, intellettuali, filosofi, giornalisti. Non è solo perché hai dei numeri sui social che puoi definirti influencer o intellettuale. Anche perché, come scrivo nel libro, il problema è che per come sono sviluppati gli algoritmi, in maniera per altro abbastanza cosciente, tutto diventa il solito rumore di fondo e quindi tutto si perde. Quindi anche la voce di uno che ha centomila follower si dissolverà nello stesso modo. Magari potrai infiammare il dibattito pubblico per qualche giorno. Ma le cose non saranno mai esplodibili in maniera globale. Tutto è fatto proprio per raggiungere questo obiettivo in cui la tua voce e la mia voce si disperdono inevitabilmente. Così anche le tue battaglie diventano una forma di distrazione di massa, mentre i giochi veri si fanno su altri tavoli, senza che si sappia davvero da fuori quale sia il disegno generale. Quando sono andato in Cina mi sono reso conto in maniera palese che c’è un potere che sparge delle briciole alle galline. Le galline siamo noi e le briciole sono le notizie sugli influencer, gli scandali politici, la notizia di cronaca nera con cui ti bombardano, in modo che tu abbia costantemente temi per posizionarti, per essere tracciato, per essere sempre profilato e influenzato meglio, e allo stesso tempo fanno in modo di tenerti distante dalle cose che, cambiando, potrebbero davvero darti modo di decidere il destino di questo caz*o di mondo.
In America Trump ha vinto anche grazie a Elon Musk. Ma sono anni che si parla anche dell’influenza di Facebook, Instagram e TikTok. Walter Siti parla di “galassia Zuckerberg” e anche i politici, secondo lui, si sono adattati alle nuove regole dettate dai miliardari che gestiscono i social. Questo che conseguenze ha secondo te?
Il primo trapper in Italia è Matteo Salvini. Lui si lamenta tanto di certi personaggi, fa il Codice della strada in cui si dice che se ti sei fumato una canna una settimana prima devono toglierti la patente, ma lui è il primo che usa il linguaggio dei trapper, che usa il comportamento sui social degli influencer, di chi deve stare sempre sul tema del momento. Questo per forza influenza i dibattiti pubblici e quindi quello che pensiamo. Ora, con i social, si possono imporre modelli di società molto di più che in passato, anche rispetto alla televisione. Come dice Vasco in una canzone di fine anni Novanta, Non appari mai, tu non sai nemmeno più se sei stato tu a pensare quella roba o se te l’hanno indotta.
Colin Ward e Fabrizio de André, entrambi tra l’altro due anarchici: li definisci dei lucidisti e non sarebbero i soli. Il lucidismo ha a che fare con la sfiducia verso il potere?
Il lucidismo non ha sfiducia nei confronti del potere, il lucidismo non riconosce il potere, non lo prende neanche in considerazione. Il lucidismo è opposizione, è ossimoro. In una determinata situazione, prendendo visione delle caratteristiche di quella determinata situazione, tu la puoi pensare in un modo o, cambiando contesto, pensarla in un altro. Non appartieni a nessuno, è proprio un elogio della non appartenenza. Quindi non può prendere in considerazione il potere. E noi abbiamo bisogno di lucidisti adesso, più di quanto ce ne fosse bisogno in passato.
Uno dei riferimenti di Resistenza intellettuale è Antonio Gramsci.
Gramsci è decisivo. Quello che dico su Odio gli indifferenti mi sta particolarmente a cuore perché è come dire: vivere è essere partigiani, è prendere posizione. Invece noi ci facciamo andare bene una serie di cose che, se ci pensi bene, sono disumane. Sono quelle di cui abbiamo parlato, il fatto che alcuni influencer vengano pagati trentamila euro per un post, che esista un sistema finanziario che quadruplica investimenti su investimenti per l’intelligenza artificiale, che una ricchezza che potrebbe bastare per tutti è invece distribuita in modo tale da creare privilegi per i superricchi, mentre altri fanno la fame. Questo la Cina lo ha capito, sa che per non farti ribellare deve farti stare bene. Allora io dico: dateci un cesso hi-tech come quelli delle case cinesi, e anche io sarò buono e calmo e il mondo sarà meraviglioso. Però fin quando ci sarà un’ingiustizia, allora ci saranno problemi. E da questo punto di vista, l’Occidente lo vedo messo molto molto peggio, perché il divario sociale sta aumentando tantissimo.
Si rischia di diventare indifferenti anche dimenticando, giusto?
Quello che ha scritto Primo Levi è devastante. Parlo della prefazione a Se questo è un uomo, un libro che doveva pubblicare con Einaudi, ma Einaudi non voleva pubblicarlo perché sarebbe uscito solamente due anni dopo la fine dell’orrore nazista. Einaudi voleva qualcosa di più leggero e invece Levi, quasi da cronista, aveva scelto di raccontare tutto. Questo libro è stato poi pubblicato sempre da un editore torinese, De Silva, e nella prefazione Levi scriveva che avremmo dovuto guardare con freddezza a quello che era successo, perché non dovevamo dimenticare. Ecco, noi siamo in un’epoca in cui anche chi aveva vissuto da piccolo quella Guerra sta morendo, stiamo entrando in un’epoca in cui non avremo più dei testimoni diretti della vicenda più drammatica della storia dell’Occidente. Proprio in questa fase, in cui chi poteva raccontare quella storia sta sparendo, assistiamo a una nuova forma di tracciamento propria della civiltà tecnocratica. E non credo sia un caso. Viviamo ciò che viviamo perché non c’è più gente che sappia cosa vuol dire vivere soggiogati.
Sei stato in Cina e nel libro lo racconti. Hai visto un nuovo step verso il controllo sociale, indipendentemente dall’interpretazione positiva o negativa di questo fenomeno. Anche l’Occidente sta diventando come la Cina? O lo è già?
Bùyung-chul Han racconta perfettamente nei suoi libri come non si possa che essere degli estremi individualisti. Ma in realtà secondo me siamo già oltre. Non devi neanche più essere un individuo, devi essere una x, un dato, ed entri a far parte dei cosiddetti cluster. Non importa neanche sapere chi sei, importa sapere che a determinati input reagirai in determinati modi già classificati, che ti faranno rientrare in un certo gruppo; non solo per data di nascita e classe sociale di appartenenza, come è sempre stato, ma in maniera molto più raffinata. La Cina è il modello dell’Occidente. La differenza è che la Cina ha un vantaggio competitivo fortissimo, cioè il fatto di avere un cervello unico: quindi tutti i dati confluiscono nel cervello unico, rappresentato dal governo, dal potere centrale. Da noi non è ancora così perché i cervelli sono tanti, guarda anche quanti servizi segreti ci sono, quante agenzie governative ci sono. Per ognuno di questi enti c’è un cervello e i cervelli tra di loro comunicano poco, con moltissime invidie (per esempio la Cia e la Dea si mettono spesso l’una contro l’altra). Ma i Paesi come la Cina che hanno un cervello centrale, per esempio la Russia, non sono dotati dello sviluppo tecnologico della Cina e quindi hanno comunque meno potere. Tu pensa che la Cina, per essere il primo produttore di macchine elettriche, si è comprata tutta la filiera e possiede la maggior parte dei giacimenti per il litio, per il cobalto, per le terre rare che servono a produrre i cellulari, i tablet e le auto elettriche. E questo si riflette, in concreto, se guardiamo a tutta una serie di aree di produzione in Italia che vengono devastate perché le auto europee non reggono la concorrenza con i colossi, soprattutto cinesi, e i cinesi vengono a produrre in Europa ma in Ungheria, cioè in altre zone. Quindi abbiamo una ricaduta vicino a noi di un procedimento che inizia in Congo, dal ragazzino che con un martello artigianale picchia contro una cava di cobalto. Questo dimostra anche che il mondo non è più sostenibile, anzi è marcio come sempre. Anche la sostenibilità è una finzione, soprattutto se massacri determinate zone e delle popolazioni.
Hai fatto inchieste, reportage, interviste, sei sempre stato un giornalista: ora sei diventato filosofo? Nel libro scrivi che i filosofi non esistono più, però qualche nome in realtà lo fai… Limitiamoci all’Italia: cosa ti aspetteresti, e manca, dai filosofi italiani?
Ho sempre avuto queste due anime, giornalista e filosofo. Non posso essere definito filosofo, ma studioso di filosofia sì. Sono laureato in filosofia e ho sempre portato avanti le letture filosofiche, anche se sono giornalista. Vedendo come si sviluppava il dibattito mediatico nel corso di questi ultimi vent’anni, mi sono reso conto di come la presenza degli intellettuali, e soprattutto di filosofi, sia costantemente diminuita. Nel corso degli anni le figure di riferimento sono sempre state altre. Ora i filosofi devono tornare invece a far parte del sistema mediatico, del dibattito. I filosofi devono diventare quasi una categoria trend, di tendenza. Essere invitati in tv, essere presenti nei dibattiti culturali italiani e così via. Invece la figura del filosofo è sempre un po’ ghettizzata. Per questo che dico che non ci sono più filosofi ma, proprio di fronte a questo precipizio, è ancora più importante citarli. E io li cito. Noi abbiamo bisogno di una teorizzazione del mondo che stiamo vivendo e in cui vivremo. E questo lo possono fare solo i filosofi. Alla fine quello che manca è proprio la consapevolezza che ti può dare solo uno studioso. Cosa mi aspetto allora? Dobbiamo tornare a parlare per strada, dobbiamo tornare ai simposi, dobbiamo prendere i libri di merda che ci sono negli scaffali all’ingresso delle librerie e coprirli con i libri dei filosofi. Dobbiamo tornare a parlare alle persone per strada, un po’ come fanno quei cantanti che si fanno vedere e suonano in centro. Io mi immagino tanti picchetti di filosofi. Se dovessi organizzare una Giornata della filosofia prenderei i migliori filosofi italiani, li metterei in centro a Milano da San Babila fino alle Colonne e ognuno di loro dovrebbe fare un discorso, urlare in faccia alle persone quello che pensano.
Siamo oltre l’illuminismo oscuro di Nick Land, in una società tecnocratica in cui è impossibile non essere tracciati, non prendere una posizione sui social, non essere sovraesposti. Che vuol dire resistere? E perché deve essere una resistenza “intellettuale”.
Resistenza vuol dire cercare di ritardare il più possibile il momento in cui qualsiasi barlume di dissenso verrà cancellato, spento. Perché sempre di più secondo me andremo verso questa direzione qua e raggiungeremo il momento in cui veramente verrà spento. Quindi io mi immagino che a un certo punto, nel 2100, il mio libro venga ritrovato in qualche buco della terra, in qualche sottoscala, da una persona che attraverso questo libro possa dire: “Caz*o, allora non siamo stati sempre così lobotomizzati. C’è stato un momento in cui potevamo dire di no”. Quindi resistere per me è anche solo scrivere questo libro. Per te può essere un altro tipo di atteggiamento, nel libro parlo di microsalvezze. C’è chi resiste riuscendo a estraniarsi per esempio. Resistere può essere anche la resa, nel senso che ci fermiamo. Smettiamo. Disertiamo, come dice Franco Bifo Berardi. Resistere è il comportamento di chi si muove in modo lucidista, ma questo comportamento può cambiare. Se noi resistessimo come i partigiani, chiaramente non sarebbe più accettato. Guarda come hanno reagito contro Landini. Se usi la parola “rivolta” diventi automaticamente le Brigate Rosse. Questo appiattimento è anche appiattimento del pensiero tra l’altro, perché se hai un pensiero violento, deciso, forte, allora vieni tacciato di essere violento, anche se il pensiero violento ha la stessa dignità del pensiero debole. Quindi resistere è non farsi prendere dall’appiattimento, dal conformismo che ci impongono attraverso la sovraesposizione e tutti quei meccanismi della civiltà tecnocratica di cui abbiamo parlato. Ecco, c’è un legame tra i resistenti della Seconda Guerra Mondiale e i resistenti di oggi, Camillo Langone lo fa notare: il bosco. Perdersi per qualche giorno, camminare, recuperare il contatto fisico. Perdersi la tecnologia.