La musica italiana vive nel paradosso più grande della sua storia. È ovunque, ma non conta più nulla. La ascoltiamo, la commentiamo, la consumiamo, ma non la consideriamo più un lavoro. Non è un mestiere, è un accessorio narrativo. Un elemento estetico di un racconto televisivo che cambia ogni giorno, come cambia il meteo. Oramai la musica sta alla tv come il pane alla nutella. Un binomio creato ad arte da etichette e agenzie durante il Covid e che si è subito rivelato un grande business. In teoria X Factor dovrebbe essere un talent show: si parte dalle audizioni, si passa per i live, si arriva alla finale. In pratica è diventato un gigantesco palcoscenico per i giudici, con i concorrenti ridotti a carne da montaggio. I numeri, paradossalmente, dicono che lo show “funziona”: la finale 2024, con Mimì vincitrice, è stata la più vista delle ultime quattro stagioni, 1,76 milioni di spettatori medi e circa l’8,6% di share complessivo tra Sky e TV8, in crescita di oltre il 50% rispetto all’anno precedente. L’edizione 2025 ha addirittura registrato il dato di share più alto delle ultime sette stagioni.
Quindi il prodotto “televisivo” c’è. Il problema è che la musica non è più al centro. È uno show dove chi dovrebbe essere giudice in realtà usa il programma per rilanciare se stesso, mentre chi si illude di lanciare la propria carriera spesso scompare due settimane dopo la finale. La verità è semplice: X Factor non è più un talent show. È uno show incentrato sui giudici, non sui talenti. I talenti sono solo “funzionali” all’ulteriore rafforzamento della immagine dei giudici oltre quella estetica fatta di trucco parrucco e abiti. Lo si vede da tutto: dalle scelte di casting, dai montaggi cuciti su misura, dagli script sottopelle, dalle reazioni da manuale di regia. E lo share — non il talento — è il vero motore. Ma il punto più inquietante è un altro: l’unico vero scopo di X Factor è resuscitare (o rilanciare) la carriera dei giudici, non lanciarne di nuove. Il pubblico non guarda per scoprire un artista: guarda per vedere come si comporterà Lauro, cosa dirà Paola Iezzi, come reagirà Jake La Furia, quale lacrima di Gabbani farà tendenza su TikTok.
I ragazzi? Pedine. Utili fino a quando servono alla narrativa del momento. Poi scompaiono, letteralmente, dal radar nazionale nel giro di mesi. E quindi? X Factor, che dovrebbe scoprire i talenti scopre Giudici, Sanremo ne consacra qualcuno ma sempre quello sbagliato, almeno negli ultimi tre/4 anni. Amici almeno si maschera da scuola e alla fine qualcosa ai ragazzi insegna. In mezzo c’è una discografia sfiatata, che non investe e non rischia, e che ormai si limita a cavalcare l’onda dei format televisivi e dei trend social. Questo sistema non cerca artisti: cerca contenuti. E in questo meccanismo spietato, l’artista non è più un creatore: è un pretesto.
IL MONTAGGIO FRANKENSTEIN: GIUDIZI RICICLATI E INCOLLATI
Quest’anno la crepa si è vista benissimo. Guardando le puntate registrate era evidente che molti commenti – soprattutto di Achille Lauro e Paola Iezzi – non combaciavano con ciò che si stava vedendo in video. Frasi generiche, montate come figurine Panini: prese da un’esibizione e incollate su un’altra. Commenti non sincronizzati, reazioni incoerenti, frasi che sembravano parlate a una persona ma montate sul volto di un’altra. Una specie di puzzle post-prodotto, dove il senso si ricompone solo in sala di montaggio. Il risultato è che in diretta regnava l’imbarazzo: giudici erano spaesati, come se non ricordassero cosa avessero detto, quando e a chi. La sensazione palese era che nemmeno loro sapessero più quale fosse il “racconto ufficiale” che stavano portando avanti. E quando perfino chi sta al centro del format perde il filo della narrazione, è segno che la realtà e la sua rappresentazione televisiva non coincidono più. X Factor è diventato un racconto post-prodotto: si gira una cosa, se ne monta un’altra. E se anche la giuria non si ricorda più cosa ha detto, qualcosa nella coerenza del programma è saltato.
ACHILLE LAURO: IL GIUDICE CHE SAREBBE DA GIUDICARE
Achille Lauro è forse il caso più emblematico del sistema. È l’unico giudice seduto al tavolo che sembra essere lì non per valutare — ma per essere rivalutato lui stesso. Oggi viene venduto come artista “visionario, trasversale, onirico”. La realtà è più concreta: il suo catalogo pop è oggettivamente povero, mentre la continua mutazione estetica – da trapper a crooner, da glam rock a santino pop – assomiglia più a una rincorsa ansiosa degli streaming che a un progetto artistico coerente. Non è evoluzione artistica: è ansia di posizionamento, bisogno disperato di restare sulla cresta dell’onda, qualunque sia l’onda del momento. E ora è il momento di farsi scrivere i testi da Federica Abbate, da Holly, da tutti i fantastici parolieri che assembrano testi come si assembla la nuova 500 a Mirafiori. Il paradosso è evidente: i suoi compagni di partenza — Marracash e Sfera Ebbasta — sono diventati colonne dell’urban italiano, costruendo cataloghi coerenti. Lui no. Lui ha solo costruito un personaggio. E continua a farlo e solo per soldi. Complesso, interessante, affascinante… ma artisticamente fragile. Jake La Furia lo ha liquidato come sostenuto dal pubblico delle “gattare”: cioè una fanbase più affascinata dal look e dalla sua estetica che dalle canzoni.
C’è stato un momento in cui Lauro sembrava destinato a diventare “l’artista totale”. Poi la parabola: superospite a Sanremo, tour traballanti e piazze gratuite nel 2023, Capodanno di Roma annullato per mancata vendita, poi apparizioni ovunque pur di restare visibile. X Factor è il suo nuovo palcoscenico di legittimazione. Ma non basta. Oggi, grazie alla discografica che gestisce anche X Factor, Lauro torna in primo piano, annuncia sold out, occupa slot televisivi ovunque. Ma resta una domanda sospesa: quanto è reale e quanto è gonfiato? Definirlo trasformista farebbe vergognare Arturo Brachetti che di quell’arte è indiscusso Re. Intanto, la sua frase-tormentone ai concorrenti è: “Il progetto è ancora acerbo”. Da uno che da anni “cambia pelle” per inseguire il mercato, suona più come autocritica involontaria. Nel frattempo sfila alla Scala, porta la fiamma olimpica, compare in ogni evento di prestigio. Da figura “onirica” è diventato un personaggio onnipresente, quasi da game show.
E poi c’è Paola Iezzi. Qualche hit nei primi Duemila, un passato in coppia con la sorella Chiara, poi il silenzio quasi totale. Chiara, almeno, ha scelto la recitazione e sembra aver fatto pace con l’idea che quel capitolo fosse chiuso. Paola no: riappare in prima serata, tra parrucche stile Marilyn, pellicce bianche e lenti azzurre, a distribuire giudizi artistici come se il suo curriculum fosse quello di una hitmaker seriale. Le sue competenze musicali – con l’aiuto degli autori – potrebbero essere sufficienti a tenere in piedi due frasi sensate a puntata. Il problema è che spesso non ci riesce nemmeno così. E anche nel suo caso, molti commenti nelle puntate registrate sembrano palesemente riferiti ad altri concorrenti, ma montati su esibizioni diverse. Quando poi la “sua” concorrente vince, la sensazione è quella di una vittoria più narrativa che musicale. Come spesso accade, i secondi classificati sono i veri depositari del potenziale. Succede a X Factor, succede a Sanremo, dove il televoto – ribattezzato da molti “telepilotovoto” – ha spesso indirizzato finali controversi.
JAKE LA FURIA: UNO DEI POCHI CON UNA STORIA DA RACCONTARE
In questo quadro, Jake La Furia è l’unico che dà l’impressione di saper davvero cosa sta facendo. Ha una storia: ha costruito, con Gué, un pezzo fondamentale del rap italiano, viene da una famiglia ben inserita nella comunicazione e avrebbe potuto scegliere la strada comoda, ha preferito rischiare, lavorare sulla musica, star fuori dai giri TV per anni. Quando giudica: cita riferimenti musicali veri, ragiona sulle strutture dei brani, non ha bisogno di travestimenti né di storytelling artificiale. Nei podcast lo capisci quando parla. Ha una cultura musicale riconoscibile. È l’unico che sembra stare lì perché ha fatto musica, non perché deve riposizionarsi nel mercato.
FRANCESCO GABBANI: L’AUTORE PERBENE (CON LACRIMA INCORPORATA)
Francesco Gabbani è la figura “pulita” del tavolo: educato, professionale, buon autore, cantante più che dignitoso. Ha suonato sui palchi veri, sa suonare strumenti, conosce un minimo di armonia e arrangiamento. Ha fatto ballare una scimmia: per forza qualche capacità ce l’ha. La sua lacrima pronta all’uso in diretta (più d’una volta) fa pensare a una certa teatralità aggiuntiva. Che ci fossero fettine di cipolla in tasca non lo sapremo mai, ma l’effetto drammaturgico è stato evidente. Resta un dato: il suo concorrente era quello che più di tutti meritava di vincere, al netto delle simpatie personali. Insomma: almeno lui, nel quartetto, ha una base musicale robusta. Ed è già molto.
IL CONFRONTO CON L’ESTERO: LORO METTONO IN CATTEDRA TITANI
Per capire quanto sia distorto il nostro sistema basta guardare cosa succede altrove. Negli Stati Uniti The Voice affida le poltrone dei coach a gente come Christina Aguilera, Usher, Alicia Keys, Adam Levine, Gwen Stefani, Shakira, Pharrell Williams, John Legend, Kelly Clarkson. E, negli ultimi anni, Snoop Dogg e Michael Bublé, entrati stabilmente nel roster dei coach dalla stagione 26 in poi. Parliamo di artisti che hanno cambiato la pop music, venduto milioni di dischi, vinto Grammy, riempito arene in tutto il mondo. Nel Regno Unito sulle poltrone di The Voice UK si sono seduti will.i.am, Jessie J, Sir Tom Jones, Kylie Minogue, Rita Ora, Boy George, Jennifer Hudson, Anne-Marie, Olly Murs, e via così. Sono figure che hanno una storia musicale oggettiva, riconosciuta, internazionale. Noi, invece, ci permettiamo giurie che hanno repertori evaporati da anni, inseguono l’algoritmo del momento, e spesso usano il talent come salotto personale di riposizionamento.
Arriviamo al Festival. Sanremo 2026 è già nato dentro un clima di tensione: si parla di boicottaggio da parte di alcune major e big della musica italiana. Sembra un Roland Garros senza le teste di serie n.1, con solo le n.2 in tabellone. Per capire perché, bisogna guardare al contesto. La nuova cornice legale ed economica e cioè fine dell’affidamento diretto alla Rai. Dopo una sentenza del TAR Liguria e la conferma del Consiglio di Stato, il Comune di Sanremo non può più affidare il Festival direttamente alla Rai: dal 2026 si deve passare da bando pubblico. Il bando del Comune per le edizioni 2026–2028 (con possibilità di proroga di due anni) che fissa alcuni paletti molto rigidi: corrispettivo minimo annuo di 6,5 milioni di euro (circa +30% rispetto all’accordo precedente da 5 milioni); almeno l’1% di tutti gli introiti pubblicitari e dallo sfruttamento del marchio Festival; partecipazione riservata a operatori nazionali in chiaro, con canale generalista e comprovata esperienza nella gestione di grandi eventi. La clausola anti-flop sugli ascolti, inserita nel bando: se gli ascolti di una o più edizioni scendono oltre il 15% rispetto alla media delle ultime cinque, il Comune può rescindere il contratto senza penali. Considerando che negli ultimi anni il Festival ha viaggiato stabilmente oltre il 60% di share, il margine per sbagliare è minimo e di fatto favorisce Rai e pochissimi altri soggetti. La Rai unica offerente: 6,5 milioni + 1% introiti pubblicitari, messa in onda degli eventi collaterali (Sanremoinfiore, altre due serate, targa sul marciapiede, ecc.), convenzione triennale con opzione di proroga biennale. Infine le preoccupazioni dei discografici FIMI ha chiesto esplicitamente che il bando tenesse conto degli investimenti dell’industria discografica, mettendo sul tavolo il fatto che le label si fanno carico di produzioni, promozione, rischi, mentre il sistema festivaliero scarica su di loro responsabilità e vincoli crescenti.
IL SANREMO DI CARLO CONTI
Sul piano artistico, il 2026 è già definito: Festival dal 24 al 28 febbraio 2026, spostato per non sovrapporsi alle Olimpiadi Milano-Cortina; Carlo Conti confermato direttore artistico e conduttore; 30 Big in gara, con combinazione di inviti diretti e selezioni da Sanremo Giovani e Area Sanremo. Il punto è che, tra clausole economiche, responsabilità richieste alle case discografiche e controllo totale del format da parte della Rai, non stupisce che alcuni artisti e alcune etichette stiano ragionando se “valga la pena” partecipare. Da qui la parola che rimbalza: boicottaggio. Non tanto per odio verso il Festival, quanto come forma di resistenza verso un sistema percepito come iper-controllato, costoso e rischioso.
UNO STATO DI SALUTE PRECARIO: POCHI PLAYER, POCHE DOMANDE GIUSTE
Tra X Factor e Sanremo emerge un quadro chiaro: la TV è diventata l’unico luogo legittimante: se non passi da lì, sembri non esistere. I talent servono a tenere in piedi i giudici e i format, non a costruire carriere. Il Festival, che dovrebbe essere la massima celebrazione della canzone italiana, si gioca sempre di più tra clausole, bandi, share, percentuali pubblicitarie. Sul piano industriale, i veri player che contano nel mercato italiano sono meno di una decina. Lo sanno tutti: discografici, addetti ai lavori, giornalisti. Ma si continua a far finta che esista un grande “mercato libero” dove chiunque può emergere a colpi di talento. Non è così. In un sistema dove: si indaga poco, si intercetta ancora meno e si preferisce inseguire i trend anziché costruire identità, la musica rischia di essere solo colonna sonora di qualcos’altro: di una giuria che si autopromuove, di un festival che deve garantire il 60% di share, di un bando che pensa più all’1% sugli spot che all’1% di originalità delle canzoni. E il paradosso finale è questo: mentre in TV si moltiplicano i format “sulla musica”, la musica come mestiere vero, lento, rischioso, artigianale, è sempre più fuori campo.