Raggiungo telefonicamente Dario Vergassola un pomeriggio di marzo. Sono da poco passate le 17 e lui deve ancora pranzare. Mi chiede se mentre chiacchieriamo può bersi un tè caldo e mangiare qualche biscotto. È da pochi giorni uscito il suo nuovo libro Storie vere di un mondo immaginario. Cinque racconti delle Cinque terre (Baldini + Castoldi) ma le chiacchiere ci portano a parlare di tanto altro. La politica, la comicità, gli amici del bar, gli anni di Zelig, del Maurizio Costanzo e anche quelli in cui con una 2 CV partivi da La Spezia e arrivavi a Dubrovnik.
Iniziamo dal libro, dalla prima pagina, da questa dedica: A quelli che fanno diventare vere le storie finte e non il contrario. Che significa esattamente?
Mi affascina l’idea dell’immaginario fiabesco che diventa realtà e fa diventare vere cose finte, come le favole e non il contrario.
Quindi non c’entrano le fake news…
In qualche modo invece sì. In un certo senso far sembrare vera una storia fiabesca è l’opposto del far diventare vere le menzogne. Penso al negazionismo che va da Auschwitz e arriva fino ai terrapiattisti. Abbiamo un Alzheimer culturale che ci fa scordare la realtà. Sentiamo superficialmente qualcosa urlata sui social o in tv e subito la percepiamo come vera.
Leggendo il libro ho pensato spesso alle Favole di Esopo. Mi domando se anche le tue storie hanno delle morali.
Non credo che ci siano delle vere e proprie morali. C’è del cinismo, anzi dell’ironia cinica, che emerge. Quella che ci fa piangere al cinema mentre vediamo Bambi e poi ci fa ordinare le pappardelle al ragù di Daino al ristorante due ore dopo. Abbiamo una visione disneyana del mondo che ci fa stare a posto con la coscienza e con cui ci autoassolviamo, ma poi – in fondo – siamo delle bestie.
L’idea di questi cinque racconti come nasce?
Anni fa Gino strada aveva chiesto a me e ad altri di scrivere dei racconti per un libro Einaudi. I proventi sarebbero poi andati ad Emergency. Io scrissi L’avventura di Adriano. Il Polpo di Palaedo (ambientata a Manarola ndr) e poi decisi che avrei fatto un racconto per ognuna delle Cinque Terre. Ed eccoci qui.
C’è una connessione tra il tuo libro e La marcia dei pinguini, il documentario Premio Oscar…
Il Premio Oscar Luc Jacquet ha scritto prefazione al libro. Insieme a lui e ad alcuni musicisti prima del lockdown stavamo lavorando per mettere in scena un’opera rock ecologista. Gli feci leggere qualcosa del libro da poter usare anche nello spettacolo e gli piacque. Così gli chiesi la prefazione mentre era in Siberia a girare un documentario su non so quale animale. Ed ecco come uno che faceva il manovale a La Spezia e passava le serate al bar di periferia si trova un Premio Oscar che gli scrive la prefazione del libro.
Le Cinque Terre possono essere una metafora dell’Italia? Belle e perfette nella loro immobilità, se viste a distanza. Poi ti avvicini e ti accorgi che sono frastagliate, scomode, tumultuose…
Più che rappresentare il paese, credo che siano quello che il paese dovrebbe ambire ad essere. La loro scomodità è un carattere. Sono ispide, faticose, inospitali, chi ci vive ha fatto una vita di inferno. Quando padre mi racconta le storie di lui da ragazzino mi sembra di sentire racconti ottocenteschi, ma sono fatti accaduti a persone ancora in vita. Forse proprio per questa scomodità questi luoghi sono passati per tanti anni inosservati. Sono una via di mezzo tra la Costiera Amalfitana e la Sardegna e rappresentano nell’immaginario collettivo quello che disegnerebbe un bambino: la chiesetta, il gabbiano, il pesciolino e intorno tutto verde. Come in Incontri ravvicinati del terzo tipo dove tutti senza conoscersi fanno lo stesso disegno. E così è per le Cinque Terre. Sono semplici come le disegnerebbe un bambino.
Hai detto in più occasioni di aver fatto poche scuole di teatro e tanto bar… è nella vita di tutti i giorni che si impara a far ridere e a prendersi poco sul serio?
Ma certo. Quando a 17 anni il bar ti chiude alle 21:30, sei in periferia e non c’è altro… o ti cresce una vena ironica o ti fai le pere. Chi è cazzaro si salva dalla melma della periferia e della provincia. Al bar le serate le passavi a raccontare sempre la stessa cosa, ma in modi diversi e alla fine facevi degli esercizi di stile. Chi aveva la fortuna di fare un viaggio passava un anno a raccontare i preparativi e poi tre anni a raccontare il viaggio. Una volta un amico del bar ci raccontò la metro di Londra per tre mesi. Riondino e Rossi chiamavano questa cosa “lo sgurz” questa arte magica del saper sopravvivere con cazzeggio e battute. E sì lo confermo: il bar è davvero più potente di qualsiasi scuola di teatro.
Negli anni ho apprezzato tanto le tue interviste dove smonti il sistema classico e spiazzi chi riceve la domanda. Come nascono?
Allo Zelig una volta proposi di intervistare le gnocche… ci provammo e andò alla grande. Arrivavo sul palco con una parrucca in testa tutta sgangherata e iniziavamo l’intervista. Alla Ventura chiesi se si ricordasse la sua prima volta, mi rispose di sì e poi continuai: e quanti eravate? La Hunziker alla fine disse: “peggio di una visita dal ginecologo”. Lei fu deliziosa, autoironica, sorridente, arrivò lì che era la moglie di Ramazzotti e il culo di Roberta e l’anno dopo la chiamarono a presentare Zelig. Le cambiò un pezzo di vita con quell’intervista, ma questo lo racconta lei non lo dico io.
Tutte le interviste le chiudevi con “me la darebbe?” che poi divenne anche il titolo di un tuo libro.
Ho sempre scritto libri comici, il primo romanzo è stato “La ballata della acciughe”
Dove torna la figura del bar…
E anche la periferia, con le acciughe gratis messe sul bancone perché sono sotto sale e fanno venire sete. Un vecchio trucco ligure…
C’è una frase che ti ho sentito dire recentemente: Per me Maurizio Costanzo è stato come Medjugorje per Paolo Brosio…
Costanzo è la mia Lourdes. Una vasca dove non mi sono solo bagnato i piedi, ma ci ho fatto un carpiato.
Com’era Costanzo negli anni ruggenti del suo Show?
Curioso, intelligente… tra il cazzaro, l’ironico e il cinico. Si era anche affezionato e ancora oggi non perde occasione di nominarmi. Eravamo riusciti a entrare in sintonia.
Socialmente che significava andare al Costanzo Show negli anni 80 o 90?
Ti dico solo questo. La prima volta che sono entrato al Teatro Parioli ero un manovale, quando sono uscito mi conoscevano tutti. Rimasi sconvolto e cambiò tutto anche economicamente. Se prima una mia serata costava 1, dopo il Costanzo costava 10. Ha cambiato la vita a me, ai miei figli e pure ai miei nipoti.
Ti sei dichiarato un “Uomo di sinistra molto orfano”.
È vero, mi sento un orfano e da tanto.
Nonostante il nuovo rinascimento?
Lui è stato uno di quelli che mi ha reso ancora più orfano. Tanti amici del bar, di destra, si sentono orfani anche loro. È un momentaccio. C’è un allontanamento generale e a votare ci va appena il 50%. Io ai politici direi: siete dei manager vi do lo stipendio pieno se vota il 100%. Sennò si va a scalare.
Sarebbe il vero uno vale uno…
Che se lo dice Che Guevara in trincea col fucile in mano ha pure senso, ma così… se penso ai miei figli… se si fossero messi su un Rousseau di turno adesso magari me li trovavo ministri (ride). Hanno peggiorato e abbassato la qualità. Come i talent, dove vedo giudici che ragionano su artisti dieci volte più bravi di loro.
Prima di intervistarti ho cercato qualche tuo video su YouTube. Mi sono imbattuto sulla bella campagna #SEISICURO, per responsabilizzare chi si mette al volante. Che rapporto hai con le auto?
La mia prima macchina è stata una 2 CV 435 di cilindrata. Ci viaggiai da La Spezia a Dubrovnik. Poi a 50 anni o ti fai l’amante o vai in palestra o ti compri la Porsche… e io l’ho presa usata. L’ho tenuta un anno e poi l’ho data via perché nessuno della mia famiglia voleva salirci. Si vergognavano. Era una Porsche Carrera 911, non le ho mai aperto nemmeno il cofano. Per me poteva esserci pure un elastico dentro.
Che ci hai fatto in quell’anno?
Alla fine ci ho portato in giro gli amici del bar. Facevamo La Spezia – Viareggio andata e ritorno. Dopo la seconda multa per eccesso di velocità e dopo che vicino Bari mi ha superato una Twingo l’ho data via.
Adesso cosa guidi?
Un’Audi A3.
Potendo scegliere torneresti alla 2 Cavalli?
Sarei falso se ti dicessi di sì. Però se avessi la 2 Cavalli che fa le prestazioni di una Porsche sarebbe fantastico.